Tar 2025- ricorso depositato dal Sig. -OMISSIS- in data 26 luglio 2024 riguarda una vicenda amministrativa e disciplinare complessa, che coinvolge vari atti e provvedimenti adottati dall’Amministrazione della Pubblica Sicurezza e del Ministero dell’Interno. Di seguito, si analizzano i principali aspetti e le implicazioni del ricorso:
1. **Motivazione e oggetto del ricorso:**
- **Richiesta di annullamento:** Il ricorrente ha chiesto l’annullamento di diversi atti amministrativi e provvedimenti, tra cui:
- Il decreto n. -OMISSIS- del 19 aprile 2024, che ha disposto la sua destituzione dal servizio di pubblica sicurezza.
- La delibera del Consiglio Provinciale di Disciplina della Questura di Xxxxx del 9 marzo 2024, che ha proposto la sanzione disciplinare.
- Ogni atto connesso, presupposto o consequenziale, in particolare:
- Il decreto del 15 gennaio 2024, che ha annullato in autotutela la precedente delibera del Consiglio Provinciale favorevole al ricorrente.
- La cessazione della posizione di aspettativa speciale, disposta ai sensi dell’art. 8, ultimo comma, del d.P.R. n. 339/1982.
La richiesta di annullamento mira quindi a far valere che i provvedimenti impugnati sono illegittimi o viziati, e che dovrebbero essere revocati o annullati, ripristinando lo status quo precedente.
2. **Sospensione cautelare:**
- Il ricorso include anche una richiesta di sospensione cautelare, che mira a sospendere gli effetti dei provvedimenti impugnati fino a una decisione di merito, al fine di tutelare i diritti del ricorrente e evitare danni irreparabili.
3. **Richiesta di accertamento e condanna:**
- Oltre all’annullamento, il sig. -OMISSIS- ha richiesto un accertamento del proprio diritto al transito nei ruoli civili del Ministero dell’Interno. Questo implica che egli desidera essere trasferito nel ruolo civile, mantenendo il proprio posto di lavoro, in virtù di una domanda presentata il 20 febbraio 2023.
- Inoltre, ha chiesto la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni subiti e subiendi, che può includere danni patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dalla perdita del posto, dallo stato di incertezza o da eventuali ingiustizie comminate.
4. **Implicazioni del ricorso:**
- La vicenda evidenzia una controversia di natura disciplinare e amministrativa, in cui il ricorrente contesta la legittimità dei provvedimenti di destituzione e di gestione del suo rapporto di lavoro.
- La sospensione cautelare indica l’urgenza di tutelare i diritti del ricorrente, probabilmente per evitare che l’effetto della destituzione produca danni irreversibili prima di una decisione di merito.
- La richiesta di trasposizione nei ruoli civili suggerisce che il ricorrente ritiene di aver diritto a mantenere il proprio posto di lavoro, forse in virtù di una normativa o di precedenti accordi, e che la sua posizione attuale sia illegittima o infondata.
5. **Aspetti procedurali e possibili sviluppi:**
- La decisione sulla sospensione cautelare sarà determinante, in quanto può sospendere l’efficacia dei provvedimenti contestati temporaneamente.
- La valutazione sulla legittimità dei decreti e delle delibere dipenderà dall’esame dei motivi di illegittimità, tra cui eventuali vizi procedurali, eccesso di potere, violazioni di norme di legge o principi di buon andamento amministrativo.
- La controversia potrebbe portare a una pronuncia di annullamento o di conferma dei provvedimenti impugnati, con eventuali effetti retroattivi o di reintegro del ricorrente.
**Conclusione:**
Il ricorso del Sig. -OMISSIS- rappresenta una complessa contestazione di provvedimenti disciplinari e di gestione del rapporto di lavoro nel settore pubblico, con una forte componente di tutela dei diritti soggettivi e di verifica della legittimità degli atti amministrativi. La decisione del giudice amministrativo sarà determinante per stabilire se i provvedimenti impugnati siano stati adottati nel rispetto delle norme e dei principi di diritto, e se il ricorrente abbia diritto a rimanere nei ruoli civili del Ministero dell’Interno o meno.
Pubblicato il 04/06/2025
N. 01242/2025 REG.PROV.COLL.
N. 01062/2024 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1062 del 2024, integrato da motivi aggiunti, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero della Giustizia e Ministero dell’Interno, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Xxxxx, via Mariano Stabile n. 182;
Quanto al ricorso introduttivo (depositato il 26 luglio 2024)
Per l’annullamento:
- del decreto n. -OMISSIS- del 19.04.2024, con cui il Capo della Polizia ha disposto la destituzione del ricorrente ai sensi dell’art. 7, nn. 1, 2, 4 e 6 del d.P.R. n. 737/1981 e la cessazione dall’aspettativa speciale ex art. 8, u.c., d.P.R. n. 339/1982;
- della delibera del Consiglio Provinciale di Disciplina di Xxxxx del 09.03.2024, notificata il 13.05.2024;
- nonché di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, anche non conosciuto, ivi compresi: i) il decreto del 15.01.2024 di annullamento d’ufficio della precedente delibera favorevole al ricorrente; ii) la lettera di contestazione del 15.06.2023; iii) la relazione istruttoria prot. n. -OMISSIS- del 01.08.2023 e relativi allegati; iv) la nota di deferimento al CPD; v) i verbali e le convocazioni del CPD; vi) le richieste e nomine dei nuovi componenti sindacali; vii) ogni eventuale atto di diniego, archiviazione o comunicazione inerente alla procedura di transito nei ruoli civili ex d.P.R. n. 339/1982; viii) ogni nota, anche non conosciuta, intercorsa tra Ministero dell’Interno, Ministero della Giustizia o altri Dicasteri; ix) la circolare del 16.03.2005, n. -OMISSIS-.
Per l’accertamento:
- dell’avvenuto accoglimento dell’istanza di transito nei ruoli civili presentata in data 20.02.2023; ovvero del diritto al transito e, in ogni caso, alla conservazione del posto di lavoro.
Per la condanna:
- dell’Amministrazione al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., patrimoniali e non, subiti e subendi dal ricorrente.
Quanto ai motivi aggiunti (depositati l’8 ottobre 2024)
Per l’annullamento o la disapplicazione:
- dell’atto del Ministero dell’Interno, Dipartimento per l’Amministrazione Generale (prot. -OMISSIS-, 20.08.2024), con cui è stata archiviata la procedura di transito;
- della nota del D.P.S. (n. -OMISSIS-, 20.08.2024), con cui si è chiesto di non dare seguito alla procedura;
- dell’atto del Ministero della Giustizia del 19.08.2024 di rigetto dell’istanza di transito;
- del parere del CdA del 21.11.2023 (nota prot. n. -OMISSIS- del 27.11.2023);
- della comunicazione di rigetto trasmessa dal Ministero della Giustizia al Ministero dell’Interno (nota del 19.08.2024);
- della nota di richiesta parere al CdA del 25.09.2023 (prot. -OMISSIS- del 19.08.2024);
- di tutti gli atti, pareri o dinieghi presupposti, collegati o conseguenti, anche non conosciuti, con particolare riferimento a: i) la nota del D.P.S. (prot. n. -OMISSIS-) di trasmissione dell’istanza al Ministero della Giustizia; ii) la nota del D.P.S. al Dipartimento per l’Amministrazione generale (stesso protocollo); iii) ogni altro atto collegato o successivo, noto o ignoto.
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e del Ministero dell’Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 maggio 2025 il dott. Andrea Illuminati e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1 – Con ricorso depositato in data 26 luglio 2024, il sig. -OMISSIS- ha chiesto, previa sospensione cautelare, l’annullamento dei seguenti provvedimenti: i) del decreto n. -OMISSIS- del 19 aprile 2024, con cui il Capo della Polizia – Direttore Generale della Pubblica Sicurezza ha disposto la sua destituzione dal servizio; ii) della delibera del Consiglio Provinciale di Disciplina della Questura di Xxxxx del 9 marzo 2024, recante proposta di irrogazione della suddetta sanzione disciplinare; iii) di ogni atto presupposto, connesso o consequenziale – espresso o tacito – e, in particolare: 1. del decreto del 15 gennaio 2024 con cui è stata annullata in autotutela la precedente delibera del Consiglio Provinciale di Disciplina favorevole al ricorrente; 2. del provvedimento con cui è stata disposta la cessazione della posizione di aspettativa speciale, ai sensi dell’art. 8, ultimo comma, del d.P.R. n. 339/1982.
Con lo stesso ricorso, il -OMISSIS- ha chiesto l’accertamento del proprio diritto al transito nei ruoli civili del Ministero dell’Interno, in forza della domanda presentata il 20 febbraio 2023, con conseguente conservazione del posto di lavoro, nonché la condanna della medesima Amministrazione “al risarcimento dei danni subiti e subiendi”.
1.1 – A fondamento del ricorso proposto il ricorrente ha dedotto, in punto di fatto, quanto appresso spiegato.
a) Il sig. -OMISSIS-, Assistente Capo della Polizia di Stato dal 2002, già destinatario di lodi, compiacimenti e benemerenze, aveva ricoperto incarichi sindacali di rilievo, in particolare come Segretario Generale Regionale del sindacato -OMISSIS- dal 2013 al 2018 e come Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza. In tale veste, tra il 2016 e il 2017, segnalava diverse situazioni di rischio per la sicurezza dei luoghi di lavoro presso la Questura di Xxxxx.
b) A seguito di tali segnalazioni, a partire dal 2017, il ricorrente veniva raggiunto da una sequenza ravvicinata di contestazioni disciplinari, culminate in due distinti provvedimenti di destituzione, entrambi annullati in sede giurisdizionale. In particolare, la seconda destituzione veniva annullata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con sentenza n. -OMISSIS-.
c) Riammesso in servizio, nel febbraio 2023 il sig. -OMISSIS- veniva riconosciuto permanentemente non idoneo al servizio nei ruoli della Polizia di Stato, ma idoneo all’impiego nei ruoli civili. In data 20 febbraio 2023 presentava pertanto domanda di transito nei ruoli civili dell’Amministrazione, senza che entro il termine di 150 giorni previsto ex lege intervenisse un diniego espresso, con conseguente formazione del silenzio assenso sulla richiesta.
d) Ciononostante, sulla base di fatti risalenti al 2014 – relativi ad alcune richieste di aggregazione temporanea per motivi familiari, da tempo noti all’Amministrazione – veniva avviato un nuovo procedimento disciplinare, successivamente alla conclusione, con declaratoria di prescrizione, del procedimento penale instaurato in relazione ai medesimi episodi. In un primo momento, il Consiglio Provinciale di Disciplina proponeva l’irrogazione della sanzione della sospensione dal servizio per quattro mesi. Tuttavia, tale delibera veniva annullata il 15 gennaio 2024 dal Capo della Polizia, che disponeva la rinnovazione della fase orale innanzi a un Consiglio parzialmente ricostituito. Quest’ultimo concludeva infine con la proposta di destituzione, recepita nel decreto del 19 aprile 2024, impugnato con il presente ricorso.
1.2 – Svolta questa premessa in fatto, il sig. -OMISSIS- ha articolato i seguenti motivi di ricorso.
i. Con il primo motivo di ricorso, il sig. -OMISSIS- ha contestato che, con il provvedimento del 15 gennaio 2024, il Capo della Polizia abbia esercitato un potere di autotutela non previsto dalla disciplina speciale recata dal d.P.R. n. 737/1981, invadendo le competenze riservate al Consiglio Provinciale di Disciplina e violando, pertanto, il principio di separazione delle funzioni. Ha inoltre rilevato che l’annullamento della proposta del CPD – che prevedeva l’irrogazione della sanzione della sospensione dal servizio per quattro mesi – è avvenuto in assenza dei presupposti previsti dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990. In aggiunta, ha denunciato che il Capo della Polizia avrebbe indebitamente influenzato l’operato del nuovo Consiglio, orientandone la decisione verso una sanzione più grave (la destituzione), in violazione del principio del favor rei e del divieto di reformatio in peius.
ii. Con il secondo motivo, l’interessato ha dedotto la tardività sia dell’avvio sia della conclusione del procedimento disciplinare, evidenziando l’irragionevole lasso di tempo intercorso tra i fatti contestati e l’adozione del provvedimento impugnato. Ha quindi osservato che, qualora si ritenessero applicabili alla fattispecie l’art. 120 del d.P.R. n. 3/1957 e l’art. 9, comma 6, del d.P.R. n. 737/1981 – norme che non prevedono alcun termine di prescrizione dell’illecito né di conclusione del procedimento – si determinerebbe una lesione dei principi costituzionali e sovranazionali. In particolare, ha chiesto la rimessione alla Corte costituzionale delle predette disposizioni, per sospetta violazione degli artt. 3, 24, 97 e 117, comma 1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU, che impone il rispetto del termine ragionevole nei procedimenti sanzionatori.
iii. Con il terzo motivo, il ricorrente ha dedotto che, in data 20 febbraio 2023, aveva presentato istanza di transito nei ruoli civili dell’Amministrazione dell’Interno, a seguito del riconoscimento della propria inidoneità permanente al servizio nei ruoli della Polizia di Stato. Non essendo intervenuto alcun diniego espresso entro i 150 giorni previsti dall’art. 8 del d.P.R. n. 339/1982, si è formato il silenzio-assenso e, conseguentemente, il passaggio si è perfezionato il 20 luglio 2023. Alla luce di ciò, egli non risultava più appartenente ai ruoli della Polizia di Stato, sicché ogni atto successivo – incluso il procedimento disciplinare e il decreto di destituzione – risulta viziato da incompetenza assoluta. In particolare, il Capo della Polizia non era più titolato né a disporre la cessazione dell’aspettativa speciale, né a irrogare alcuna sanzione disciplinare.
iv. Con il quarto motivo, il -OMISSIS- ha denunciato la violazione del giusto procedimento disciplinare, lamentando il mancato rispetto delle garanzie partecipative e della trasparenza. In particolare, ha evidenziato di essere stato convocato per una seconda trattazione orale dinanzi al CPD, senza essere stato preventivamente informato dell’annullamento della precedente delibera favorevole, avvenuto con decreto del Capo della Polizia del 15 gennaio 2024, notificatogli solo il 7 febbraio. L’accesso a tale provvedimento, richiesto il 12 febbraio, è stato differito al 19 febbraio, a ridosso della nuova udienza fissata per il 28 febbraio. Tale sequenza ha pregiudicato il pieno esercizio del diritto di difesa, in violazione degli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241/1990 e dei principi di correttezza, buona fede e trasparenza dell’azione amministrativa.
v. Con il quinto motivo, il ricorrente ha negato la fondatezza dell’addebito, sostenendo che le istanze di aggregazione del 2014 si basavano su documentazione medica veritiera e non contenevano alcun intento ingannevole. Ha chiarito di non aver reso autodichiarazioni ai sensi del d.P.R. 445/2000, di aver utilizzato correttamente il termine “tumore” in riferimento a un emangioma – patologia effettivamente classificata come tumore vascolare benigno – e di aver allegato certificazioni autentiche, attestanti la necessità di intervento chirurgico e di assistenza al figlio minore. Ha inoltre sottolineato di non aver tratto alcun vantaggio economico dalla concessione dell’aggregazione, che anzi comportò sacrifici professionali e retributivi, e ha ricordato che l’Amministrazione accolse le istanze senza rilievi all’epoca. Da ciò ha dedotto l’insussistenza di un illecito disciplinare, tanto meno connotato da dolo o particolare gravità, anche in considerazione del contesto personale in cui maturò la condotta.
vi. Con il sesto motivo, il -OMISSIS- ha censurato la sanzione della destituzione per violazione del principio di proporzionalità, di gradualità e di tipicità, come sanciti dagli artt. 3 e 13 del d.P.R. 737/1981 e dall’art. 5, comma 4, TUE.
vii. Con il settimo motivo, il ricorrente ha evidenziato che gli illeciti disciplinari a lui formalmente contestati – corrispondenti ai numeri 1, 2, 4 e 6 dell’art. 7 del d.P.R. n. 737/1981 – non risultano integrati nel caso di specie, nemmeno ove si ritenesse accertato il fatto addebitato. Ha inoltre denunciato la genericità di tali fattispecie, ritenute inidonee a soddisfare il principio di determinatezza, con conseguente violazione del principio di legalità e illegittimità della sanzione irrogata.
viii. Con l’ottavo motivo, il -OMISSIS- ha infine denunciato l’illegittima sostituzione di due membri sindacali del CPD nella fase di rinnovazione del procedimento, successiva all’annullamento in autotutela della proposta di sanzione del 20 ottobre 2023. Tale sostituzione, disposta senza alcuna motivazione né giustificazione per impedimento, ha violato il principio di unitarietà del collegio giudicante, compromettendo la coerenza dell’istruttoria e il diritto di difesa. Ne è derivata – a suo dire – l’illegittimità della nuova proposta di sanzione del 15 gennaio 2024 e, per effetto riflesso, del decreto di destituzione del 19 aprile 2024.
2. Il Ministero dell’Interno, unitamente al Ministero della Giustizia, si è costituito in giudizio in data 2 agosto 2024 e, con successiva memoria depositata il 28 agosto 2024, ha chiesto il rigetto del ricorso, deducendone l’infondatezza sotto ogni profilo.
In limine, il Ministero chiarito che, contrariamente a quanto affermato da -OMISSIS-, il personale della Polizia di Stato non è soggetto alla disciplina del pubblico impiego contrattualizzato (art. 55-bis del d.lgs. 165/2001), bensì alla normativa speciale di cui al d.P.R. n. 737/1981, regolarmente seguita nel caso di specie.
L’Amministrazione ha poi difeso la legittimità dell’annullamento in autotutela della prima delibera del CPD, che aveva proposto la sospensione dal servizio, ritenendola non coerente con la gravità dei fatti. L’intervento del Capo della Polizia, lungi dall’essere arbitrario, sarebbe stato doveroso in quanto la precedente delibera era affetta da vizi di illogicità e incoerenza. Inoltre, è stata esclusa qualsiasi violazione del divieto di “bis in idem”, giacché il primo procedimento non si era concluso, essendo stato annullato prima di produrre effetti giuridici definitivi.
In merito alla tempistica, il Ministero dell’Interno ha sostenuto di aver agito nei tempi previsti, avviando il procedimento solo dopo aver acquisito formalmente la sentenza penale definitiva. Non avrebbe avuto senso – si osserva – procedere disciplinarmente prima della conclusione del processo, che si è chiuso con la prescrizione del reato, senza però escludere la responsabilità materiale del dipendente.
Quanto all’eccezione relativa al silenzio-assenso sull’istanza di transito nei ruoli civili, si è affermato che la procedura non si era ancora perfezionata né nei tempi né nelle modalità previste dalla legge, e che la destituzione è intervenuta quando il -OMISSIS- risultava ancora formalmente in servizio.
In ordine all’istruttoria, il Ministero dell’Interno ha sostenuto di aver agito con piena autonomia e completezza, acquisendo documenti, ascoltando testimoni e valutando i numerosi precedenti disciplinari del dipendente – dodici in totale, compresi diversi provvedimenti di sospensione. La decisione di destituirlo non sarebbe quindi scaturita automaticamente dalla vicenda penale, ma da una valutazione autonoma e approfondita.
È stata poi difesa la legittimità della nuova composizione del CPD, precisando che la nomina dei membri sindacali può mutare nel tempo e che non vige un principio di immutabilità assoluta. Il Consiglio, quale organo collegiale, delibera in quanto tale, e nessuna organizzazione sindacale ha sollevato obiezioni al riguardo.
Sotto il profilo sostanziale, l’Amministrazione dell’Interno hanno ribadito la gravità della condotta contestata: pur partendo da un fatto vero (l’emangioma del figlio), -OMISSIS- avrebbe consapevolmente enfatizzato la situazione clinica, parlando di “tumore” e dolori inesistenti, al solo scopo di ottenere proroghe di aggregazione e una sede a lui favorevole. Una condotta – si sostiene – sleale, contraria ai doveri di correttezza e onore imposti agli appartenenti alla Polizia di Stato.
In conclusione, secondo l’Amministrazione, la sanzione della destituzione è proporzionata e necessaria a tutelare l’integrità dell’Istituzione. Quanto infine alla domanda risarcitoria avanzata dal ricorrente, se ne è chiesta la reiezione per genericità, mancanza di prova del danno e infondatezza nel merito.
3 – Con memoria depositata il 31 agosto 2024, il -OMISSIS- ha ribadito integralmente le proprie difese, insistendo nell’accoglimento dell’istanza cautelare di cui al ricorso.
4 – Con ordinanza del 5 settembre 2024, il TAR Sicilia – Sezione Quinta ha respinto – per difetto di fumus boni juris – l’istanza cautelare proposta dal ricorrente avverso il provvedimento di destituzione e la cessazione dell’aspettativa speciale.
5 – Con motivi aggiunti depositati in data 8 ottobre 2024, il ricorrente ha impugnato il provvedimento di archiviazione della procedura di transito adottato dal Ministero dell’Interno in data 20 agosto 2024, nonché il rigetto dell’istanza di transito disposto dal Ministero della Giustizia il 19 agosto 2024, contestandone la legittimità e la validità sotto diversi profili.
Con il primo motivo, il -OMISSIS- ha ribadito che la domanda di transito presentata il 20 febbraio 2023 si era perfezionata per silenzio-assenso, ai sensi dell’art. 8 d.P.R. 339/1982, per mancata risposta nei 150 giorni. L’archiviazione successiva, motivata con la sopravvenuta destituzione, è ritenuta inammissibile, in quanto tardiva, fondata su un presupposto contestato e adottata in violazione delle garanzie procedimentali (mancato contraddittorio, assenza di notifica, ecc.).
Con il secondo motivo, è stato contestato anche il provvedimento negativo del Ministero della Giustizia del 19 agosto 2024, ritenuto privo di efficacia sia perché comunicato oltre i termini, sia perché non adottato nel rispetto delle forme richieste dalla normativa applicabile alla fattispecie. Inoltre, la motivazione fondata sulla mancanza di posti disponibili è stata considerata generica e in contrasto con la logica della disciplina, che prevede il transito anche in soprannumero.
6 – Con memoria depositata il 15 aprile 2025, le Amministrazioni resistenti hanno svolto difese avverse ai motivi aggiunti. Hanno in particolare rivendicato la legittimità del provvedimento del Ministero dell’Interno del 20 agosto 2024, escludendo la maturazione di un diritto soggettivo al transito e negando che l’inerzia potesse equivalere ad accoglimento in mancanza dei presupposti di legge. Quanto al provvedimento del Ministero della Giustizia del 19 agosto 2024, lo hanno qualificato come legittimo esercizio del potere discrezionale, fondato sull’assenza di posizioni disponibili all’interno del proprio organico.
7 – Con le memorie depositate in data 17 e 24 aprile 2025, la parte ricorrente ha ribadito integralmente le proprie difese e conclusioni, insistendo in particolare sulla questione di legittimità costituzionale già sollevata con l’atto introduttivo, relativa all’assenza di termini massimi per la durata del procedimento disciplinare.
8 – All’udienza pubblica del 20 maggio 2025 la causa è stata trattenuta in decisione, previa sua discussione.
9 – Il ricorso introduttivo risulta infondato per le ragioni che si illustrano di seguito.
10 – Assume rilievo preliminare, sotto il profilo logico-giuridico, il terzo motivo di ricorso, con il quale si deduce la formazione del silenzio assenso sull’istanza di transito del sig. -OMISSIS- nei ruoli civili dell’Amministrazione di appartenenza o di altra, ai sensi dell’art. 8, comma 3, del d.P.R. n. 339 del 1982, per effetto del decorso del termine di 150 giorni previsto per la definizione della richiesta, con conseguente illegittimità del decreto di destituzione del 19 aprile 2024 (notificato il 13 maggio 2024), in quanto adottato da un’autorità – il Capo della Polizia – divenuta ormai incompetente a seguito del perfezionamento del trasferimento in altro ruolo.
Lo scrutinio di tale censura si impone in via prioritaria, poiché il suo eventuale accoglimento determinerebbe l’invalidità del provvedimento impugnato per difetto di competenza dell’organo emanante ovvero – secondo altra ipotesi ricostruttiva – la sua radicale nullità per carenza assoluta di potere, rendendo superfluo l’esame degli ulteriori motivi dedotti.
Le Amministrazioni dello Stato resistenti contestano recisamente la tesi del ricorrente, negando che si sia formato il silenzio assenso sull’istanza. In particolare, esse richiamano l’art. 35, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, nonché l’art. 26 della legge n. 53 del 1989, sostenendo che – in presenza di condanne penali (il riferimento è alla sentenza del Tribunale ordinario di Trapani del -OMISSIS-, confermata in appello il -OMISSIS-, con cui il ricorrente è stato condannato per il delitto di cui all’art. 483 c.p.) – il ricorrente fosse privo dei requisiti morali e di condotta necessari per l’accesso o il transito nel pubblico impiego.
Le stesse resistenti hanno inoltre eccepito l’assenza del presupposto oggettivo richiesto dalla normativa di riferimento, evidenziando che la visita medica volta ad accertare l’idoneità fisica al transito nei ruoli civili, ai sensi dell’art. 8, comma 3, del d.P.R. n. 339/1982, è stata effettuata solo il 17 novembre 2023 (con integrazione del verbale il 12 gennaio 2024), ovvero oltre il decorso del termine di 150 giorni che, secondo il ricorrente, avrebbe determinato il perfezionamento del silenzio-assenso alla relativa istanza, in data 20 luglio 2023.
Secondo le resistenti, la formazione del silenzio assenso presuppone necessariamente la sussistenza di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi stabiliti dalla legge; in mancanza di tali elementi, non si sarebbe perfezionato alcun provvedimento tacito, venendo meno un presupposto essenziale della fattispecie legale.
Ora, in merito alla questione oggetto di contrasto tra le parti si registrano due distinti orientamenti giurisprudenziali: i) secondo un’impostazione restrittiva (TAR Puglia, I, sent. n. 1782/2022; Cons. Stato, IV, n. 3805/2016), la mancata sussistenza dei presupposti di legge impedisce non solo la formazione del silenzio assenso, ma anche il decorso del termine per la sua maturazione; ii) secondo un orientamento più favorevole al privato (Cons. Stato, IV, n. 3317/2018; TAR Lazio, ord. n. 1851/2022), il silenzio assenso si perfeziona automaticamente con il semplice decorso del termine previsto, a prescindere dalla presenza dei requisiti sostanziali per l’accoglimento dell’istanza, ferma restando la possibilità per l’Amministrazione di annullare in autotutela l’atto tacito, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, nei limiti ivi stabiliti.
Ritiene tuttavia il Collegio che, nel caso in esame, la controversia possa essere risolta indipendentemente dall’adesione all’uno o all’altro degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati.
L’istanza di transito presentata dal ricorrente in data 20 febbraio 2023 risulta, infatti, formulata in termini generici e alternativi, essendo diretta al passaggio “nei ruoli del personale del Ministero della Giustizia o del Ministero dell’Interno”, senza indicare con precisione quale fosse l’Amministrazione destinataria della richiesta. Tale indeterminatezza rende inconfigurabile il perfezionamento del silenzio-assenso.
Ed invero, il meccanismo del silenzio-assenso presuppone che l’istanza sia chiara, univoca e riferita a un oggetto definito, tale da consentire all’Amministrazione di esprimere, anche in forma tacita, un semplice assenso o diniego. Esso non può operare quando l’istanza richiede, per la sua definizione, valutazioni complesse, scelte discrezionali o l’intervento di più soggetti istituzionali, come nel caso di una domanda formulata in termini alternativi e priva di riferimenti puntuali all’Amministrazione competente. In tali circostanze, la formazione tacita del provvedimento non è giuridicamente configurabile, rendendosi necessaria l’adozione di un atto espresso che valuti, tra l’altro, le esigenze organizzative e le effettive disponibilità nei ruoli civili dell’Amministrazione interessata.
In conclusione, il motivo di ricorso in esame è infondato e va respinto.
11 – Passando all’esame degli ulteriori motivi, e iniziando dal primo, il ricorrente contesta che, con il provvedimento del 15 gennaio 2024, il Capo della Polizia abbia esercitato un potere di autotutela non contemplato dalla disciplina speciale dettata dal d.P.R. n. 737/1981, invadendo le competenze riservate al Consiglio Provinciale di Disciplina e violando, in tal modo, il principio di separazione delle funzioni.
In particolare, sostiene che l’annullamento in autotutela della precedente delibera del CPD di proposta di sanzione disciplinare conservativa (sospensione per quattro mesi) sia avvenuto in violazione della disciplina speciale del procedimento disciplinare per il personale della Polizia di Stato, di cui al d.P.R. n. 737/1981, che non attribuirebbe al Capo della Polizia alcun potere di annullamento o riforma della proposta del CPD, spettando a quest’ultimo la competenza esclusiva in ordine all’accertamento della responsabilità e alla determinazione della sanzione, e al Capo della Polizia il solo potere di recepire o disattendere la proposta motivando espressamente il proprio dissenso.
Inoltre, anche a voler ritenere ammissibile l’esercizio dell’autotutela amministrativa anche in tale ambito, tale potere sarebbe stato, nella specie, esercitato in assenza dei presupposti previsti dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, in quanto non risulta effettuato alcun bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello del destinatario, è mancato il contraddittorio, l’istruttoria è apparsa carente e la motivazione insufficiente, oltre ad essere stato ampiamente superato il termine ragionevole.
È stato inoltre denunciato che, attraverso l’annullamento della sanzione conservativa, il Capo della Polizia avrebbe indebitamente orientato il nuovo CPD verso un esito più grave, la destituzione, in violazione del principio del favor rei e del divieto di reformatio in peius.
Ha infine eccepito la violazione del divieto di ne bis in idem, evidenziando che non poteva essergli nuovamente contestato, ai fini della destituzione, un fatto già valutato ai fini della sospensione.
11.1 – Il motivo, così come articolato, si appalesa privo di pregio giuridico.
Nel premettere che il Capo della Polizia non ha riformato direttamente la proposta del Consiglio di disciplina, ma ne ha disposto l’annullamento per ritenuto difetto di istruttoria e vizio di motivazione, va ricordato come sia pacificamente riconosciuto in giurisprudenza (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, sezione IV, 19 luglio 2021, n. 5936; Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, 14 gennaio 2022, n. 41; T.A.R. Puglia-Lecce, sez. III, 8 gennaio 2014, n. 34) che l’autorità gerarchicamente sovraordinata conserva il potere di annullare gli atti endoprocedimentali – ivi compresa la proposta del Consiglio di disciplina – qualora affetti da vizi di legittimità, allo scopo di impedire che tali vizi si riflettano sul provvedimento finale, inficiandone la validità. Si tratta, come chiarito anche da questa Sezione (sent. n. 3106/2024) e da condivisa giurisprudenza di secondo grado (Consiglio di Stato, sezione III, 25 giugno 2013, n. 3452), dell’esercizio non già di un potere di autotutela – come erroneamente sostenuto dal ricorrente – bensì di un potere di amministrazione attiva, volto a garantire la regolarità e la legittimità dell’azione procedimentale nel suo complesso, in funzione della corretta adozione dell’atto conclusivo.
Ciò detto, anche a voler qualificare in via meramente ipotetica il potere esercitato come espressione di autotutela decisoria, anziché di amministrazione attiva, nel caso di specie risulterebbero comunque integrati i presupposti sostanziali di legittimità richiesti per il suo legittimo esercizio, in termini di adeguata motivazione, sussistenza di un interesse pubblico concreto, tempestività dell’intervento e rispetto delle garanzie partecipative.
In primo luogo, non ricorre il denunciato difetto di istruttoria o carenza motivazionale: il provvedimento dà conto in maniera dettagliata e coerente delle ragioni dell’intervento in autotutela, individuando nel mancato approfondimento da parte del Consiglio Provinciale di Disciplina degli aspetti complessivi della condotta del dipendente – in particolare alla luce delle numerose sanzioni pregresse e della gravità dell’episodio accertato (integrante gli estremi del delitto di cui all’art. 483 c.p.) – la ragione determinante dell’annullamento. Si evidenzia, inoltre, nel provvedimento di autotutela che rispetto alla condotta contestata la sanzione proposta non sia stata adeguatamente giustificata nei verbali consiliari, ove non vengono esplicitate le ragioni atte a sorreggere la scelta della sanzione conservativa.
Quanto poi all’interesse pubblico, esso risiede nell’esigenza di tutelare l’immagine di imparzialità, correttezza e affidabilità della Pubblica Amministrazione, e in particolare dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, la cui credibilità risulta inevitabilmente compromessa da condotte che si pongono in evidente contrasto con i doveri istituzionali. In tale ottica, l’annullamento in autotutela risponde all’interesse dell’ordinamento a prevenire che comportamenti gravemente disallineati dai valori di lealtà e trasparenza — come quello contestato — possano permanere senza adeguata risposta sanzionatoria, con l’effetto di alimentare sfiducia nei cittadini e discredito verso l’intero corpo di polizia.
In ordine alla tempestività, l’esercizio del potere di autotutela è avvenuto in un termine del tutto ragionevole: la delibera del CPD risale al 20 ottobre 2023, mentre il provvedimento di annullamento porta la data del 15 gennaio 2024, con un intervallo di meno di tre mesi, del tutto congruo rispetto alla complessità del caso e conforme ai principi espressi dalla giurisprudenza in materia.
Non può infine ritenersi violato il principio del contraddittorio procedimentale, ciò in quanto: i) In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, nei procedimenti di autotutela non trova applicazione l’obbligo di comunicazione di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, trattandosi di una disposizione riferita ai soli procedimenti avviati su istanza di parte e non a quelli promossi d’ufficio, come nel caso di specie. ii) Inoltre, sebbene nella fase di autotutela non sia stato attivato uno specifico contraddittorio procedimentale, l’interessato ha avuto piena e concreta possibilità di far valere le proprie ragioni nel corso del procedimento disciplinare, articolatosi in una prima fase davanti al Consiglio Provinciale di Disciplina e in una successiva fase rinnovata. In tali occasioni, le garanzie partecipative risultano integralmente rispettate, in coerenza con i principi del giusto procedimento.
Le ulteriori censure, relative alla violazione del divieto di reformatio in peius, del principio del favor rei e del ne bis in idem, si rivelano parimenti infondate. Quanto al primo profilo, non ricorre alcuna reformatio in peius ad opera del Capo della Polizia, poiché questi non ha irrogato direttamente una sanzione più grave, ma si è limitato ad annullare l’atto gravemente viziato, rimettendo la valutazione della misura disciplinare all’organo competente, secondo le forme di legge. Il principio del favor rei, peraltro, non comporta l’immutabilità della sanzione più favorevole laddove questa sia frutto di un vizio procedimentale sostanziale, come nel caso in esame. Infine, non sussiste violazione del ne bis in idem, poiché l’annullamento dell’atto ha determinato la rinnovazione del procedimento disciplinare, che costituisce una prosecuzione unitaria dell’azione sanzionatoria e non l’instaurazione di un nuovo procedimento fondato sui medesimi fatti già sanzionati.
11.2 – Alla luce di quanto sopra, il motivo deve essere respinto in toto.
12 – Con il secondo motivo, l’interessato ha lamentato, anzitutto, la tardività dell’avvio del procedimento disciplinare. A suo dire, i fatti oggetto di addebito, risalenti al 2014, erano già noti all’Amministrazione sin dall’epoca o, quantomeno, dal marzo 2019, data in cui era stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari per il reato di falso ideologico, riferito ai medesimi fatti poi posti a fondamento della destituzione. L’attivazione del procedimento disciplinare solo nel giugno 2023 costituirebbe, secondo il ricorrente, una violazione del principio di tempestività, sancito dall’art. 103 del d.P.R. n. 3/1957, nonché dei principi generali di buon andamento, legalità e tutela dell’affidamento.
La doglianza è infondata.
L’Amministrazione ha legittimamente atteso la definizione del procedimento penale relativo ai medesimi fatti oggetto di contestazione disciplinare, conclusosi con la sentenza n. -OMISSIS- della Corte di Cassazione del -OMISSIS-, che ha dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Solo a seguito di tale pronuncia, in data 20 giugno 2023, è stato avviato il procedimento disciplinare, nel pieno rispetto del quadro normativo di riferimento.
L’art. 9, comma 6, del d.P.R. n. 737/1981 – riferendosi all’ipotesi in cui il procedimento disciplinare sia successivo a quello penale – dispone infatti che: “Quando da un procedimento penale, comunque definito, emergano fatti e circostanze che rendano l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione di pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione.”
A ciò si affianca l’art. 11 dello stesso decreto, il quale – riferendosi all’ipotesi in cui il procedimento disciplinare preceda quello penale – prevede che: “Quando l'appartenente alla Polizia di Stato (…) viene sottoposto, per gli stessi fatti, a procedimento disciplinare ed a procedimento penale, il primo deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale con sentenza passata in giudicato.”
Dall’esegesi coordinata di tali disposizioni si desume agevolmente che, sebbene l’art. 9 (diversamente dall’art. 11) non faccia espresso riferimento alla definitività della sentenza, tale requisito debba ritenersi implicitamente richiesto. Diversamente opinando, si finirebbe per imporre all’Amministrazione l’avvio di un procedimento che, per effetto dell’art. 11, dovrebbe comunque essere immediatamente sospeso sino al passaggio in giudicato della sentenza penale, con evidente irragionevolezza e inutilità dell’azione.
Tale lettura trova puntuale conferma nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui “la norma recata dall’art. 9, comma 6, è chiara nel condizionare il decorso del termine per l’esercizio dell’azione disciplinare alla definitività della sentenza penale e alla conoscenza attuale e qualificata della stessa, avvenuta con mezzi ufficiali e formali” (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I-quater, sentenze nn. 15526/2022, 11842/2023, 13881/2024).
Alla luce di quanto precede, la scelta dell’Amministrazione di attendere la conclusione del giudizio penale prima di avviare l’azione disciplinare – che sarebbe comunque stata sospesa – risulta pienamente conforme alla normativa vigente e non contrasta con i principi di tempestività, buon andamento e tutela dell’affidamento richiamati dal ricorrente.
12.1 – Non è condivisibile l’ulteriore profilo di censura relativo alla durata del procedimento disciplinare successivamente al suo avvio, che – secondo il ricorrente – si sarebbe protratto eccessivamente, determinando un’asserita lesione dei principi di certezza del diritto, effettività del diritto di difesa e parità di trattamento.
La durata del procedimento (dal 20 giugno 2023 al 19 aprile 2024, per circa 10 mesi complessivi) risulta infatti congrua, tenuto conto della complessità dell’istruttoria svolta e della necessità di acquisire, valutare e riesaminare una pluralità di elementi, anche alla luce del precedente annullamento disposto in autotutela. Inoltre, non emergono elementi idonei a far ritenere che il protrarsi dell’iter abbia in concreto inciso sulla possibilità del ricorrente di partecipare attivamente al procedimento e di articolare compiutamente le proprie difese. Al contrario, risulta che l’interessato abbia preso parte al procedimento e abbia avuto piena possibilità di far valere le proprie ragioni, nel rispetto del principio del contraddittorio.
12.2 – Il Collegio non condivide inoltre il dubbio di legittimità costituzionale prospettato dal ricorrente, fondato sulla presunta lacunosità dell’art. 120 del d.P.R. n. 3/1957 e dell’art. 9, comma 6, del d.P.R. n. 737/1981, nella parte in cui tali disposizioni non prevedono un termine massimo per la conclusione del procedimento disciplinare.
La questione è irrilevante nel presente giudizio e, comunque, manifestamente infondata.
È irrilevante, in quanto anche a voler ipotizzare l’applicazione di un termine massimo – pari, ad esempio, a quello previsto in procedimenti affini, quali quelli previsti per il personale delle Forze armate (artt. 1392 c.o.m. e 1046 TUOM), per il pubblico impiego contrattualizzato (art. 55-bis, comma 9-ter, d.lgs. n. 165/2001) o per le professioni ordinistiche (es. art. 56, comma 1, legge n. 247/2012 per gli avvocati) – il procedimento in esame si è concluso ampiamente entro tale limite. Non si è dunque verificata alcuna conseguenza pregiudizievole legata alla durata dell’azione disciplinare che possa giustificare l’incidenza della norma censurata nel presente giudizio.
È altresì manifestamente infondata, poiché il sistema normativo vigente, pur non prevedendo un termine perentorio di conclusione del procedimento disciplinare, assicura comunque adeguate garanzie sul piano procedimentale e difensivo. In particolare, l’art. 120 del d.P.R. n. 3/1957 stabilisce che il procedimento si estingue qualora entro 90 giorni non venga compiuto alcun atto istruttorio, configurando così un termine funzionale idoneo a prevenire situazioni di stasi procedimentale. Nel caso di specie, il procedimento si è sviluppato in modo regolare, senza periodi di inattività superiori al limite previsto dalla norma, e in presenza di atti che ne hanno garantito la continuità.
In secondo luogo, anche prescindendo dalla disciplina settoriale, i principi generali elaborati in materia di sanzioni amministrative ex legge n. 689/1981 – applicabili mutatis mutandis anche ai procedimenti disciplinari – impongono che, pur in assenza di un termine massimo fissato ex lege, l’Amministrazione agisca con tempestività, assicurando una durata ragionevole del procedimento e motivando eventuali ritardi non giustificati, senza poter dilatare l’azione fino al limite della prescrizione (Cons. Stato, sent. n. 1081/2021). Alla luce di tale interpretazione conforme ai principi generali dell’ordinamento, la normativa applicabile – pur priva di un termine legale di conclusione del procedimento disciplinare – assicura comunque un bilanciamento adeguato tra l’esigenza di efficacia dell’azione amministrativa e le garanzie del soggetto destinatario, risultando pertanto non lesiva dei parametri costituzionali invocati dal ricorrente, in particolare degli artt. 3, 24, 97 e 117, comma 1, Cost., nonché dell’art. 6 CEDU.
12.3 – Alle considerazioni che precedono consegue il rigetto, nel suo complesso, del motivo d’impugnazione ora esaminato.
13 – Ad analoga sorte va incontro il quarto motivo di gravame con cui il ricorrente deduce la violazione dell'art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 e la violazione del diritto di difesa e del giusto procedimento.
Premesso che, in materia di procedimento disciplinare, non trova applicazione l’art. 10-bis della legge n. 241/1990 – come chiarito, tra l’altro, dal T.A.R. Toscana – Firenze, Sez. I, sentenza 2 aprile 2025, n. 626 – si osserva, anzitutto, che dal provvedimento disciplinare impugnato risulta essere stata regolarmente comunicata al ricorrente la contestazione dell’addebito, unitamente all’invito a presentare le proprie discolpe, in conformità alle garanzie previste per questa tipologia di procedimenti. Si aggiunga che la notifica del decreto di annullamento del precedente esito (7 febbraio 2024) è intervenuta in tempo congruo rispetto alla nuova udienza dinanzi al CPD (28 febbraio), con un intervallo di oltre venti giorni, così da consentire la predisposizione di adeguate difese. Né può assumere rilievo decisivo il fatto che l’accesso agli atti sia stato differito al 19 febbraio, poiché si è trattato di un differimento motivato, non ostativo alla conoscenza del contenuto del provvedimento, che era già noto per sintesi nell’atto di convocazione. È inoltre pacifico che il ricorrente ha partecipato alla nuova sessione avanti al CPD, ha potuto prendere piena cognizione degli atti, ed è stato posto in condizione di articolare le proprie difese, sia oralmente che in forma scritta.
In definitiva, nessun elemento consente di ritenere che l’istruttoria sia stata compressa o che vi sia stata una concreta lesione del diritto al contraddittorio o della parità di trattamento. Il procedimento si è dunque svolto nel rispetto delle garanzie minime e sostanziali previste dall’ordinamento per i procedimenti sanzionatori.
14 – L’ottavo motivo – da esaminare in via prioritaria rispetto a quelli precedenti, in quanto attinente a profili procedimentali, come il quarto – è parimenti infondato e deve essere respinto.
Il ricorrente lamenta l’illegittima sostituzione di due membri di parte sindacale del Consiglio Provinciale di Disciplina nella fase di rinnovazione del procedimento, successiva all’annullamento in autotutela della precedente delibera, sostenendo che tale sostituzione – disposta senza motivazione espressa – avrebbe violato il principio di unitarietà del collegio, determinando un vulnus all’istruttoria e al diritto di difesa. Neppure tali doglianze non possono essere condivise.
In primo luogo, deve escludersi l’esistenza, nell’ambito della procedura disciplinare di cui al d.P.R. n. 737/1981, di un principio di immutabilità soggettiva del collegio che imponga la partecipazione dei medesimi membri a tutte le fasi del procedimento, incluse quelle eventualmente rinnovate. L’art. 20 del citato regolamento prevede la composizione del Consiglio, ma non impone la permanenza dei medesimi componenti in caso di rinnovazione, né richiede una specifica motivazione in caso di sostituzioni regolate dai consueti meccanismi di designazione sindacale o turnazione. In secondo luogo, il motivo difetta di specificità: il ricorrente non allega circostanze concrete o elementi di fatto idonei a porre in dubbio l’imparzialità o la legittimità della composizione del nuovo collegio. La censura si risolve in una contestazione generica e apodittica, priva di riscontri oggettivi in ordine ad eventuali profili di pregiudizio effettivo per l’esercizio del diritto di difesa.
In sintesi, in assenza di un obbligo normativo di permanenza dei membri e di qualsiasi deduzione idonea a fondare dubbi sull’imparzialità del CPD ricostituito, non può ravvisarsi alcuna illegittimità nella rinnovazione della composizione collegiale, né alcun vizio derivato del provvedimento finale.
15 – I motivi V, VII e VI – che riguardano rispettivamente: (i) la contestazione dell’effettiva sussistenza del fatto ascritto al -OMISSIS-, (ii) la sua sussumibilità nell’ambito della fattispecie sanzionatoria addebitata, e (iii) la proporzionalità della sanzione della destituzione – possono essere esaminati congiuntamente, poiché attengono in via unitaria alla valutazione sostanziale della condotta addebitata.
15.1 – Relativamente al primo aspetto il ricorrente contesta la fondatezza dell’addebito, negando di aver rilasciato dichiarazioni false o mendaci nelle istanze presentate nel 2014 e censurando le valutazioni dell’Amministrazione, la quale avrebbe fondato le proprie determinazioni su accertamenti svolti nel giudizio penale conclusosi con sentenza della Cassazione n. -OMISSIS-, che ha tuttavia dichiarato il reato estinto per intervenuta prescrizione.
Ora, quanto agli esiti del giudizio penale, è bene evidenziare sin da subito che, sebbene sia intervenuta declaratoria di prescrizione, il fatto disciplinare per cui si è proceduto può contare su un doppio accertamento conforme, operato sia dal Tribunale di Trapani (sentenza -OMISSIS-) sia dalla Corte d’Appello di Xxxxx (sentenza -OMISSIS-), che hanno condannato il ricorrente per falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.).
La successiva estinzione del reato non ha fatto venir meno l’accertamento in fatto già compiuto dai giudici penali di merito, il cui contenuto rimane consolidato e pienamente valorizzabile anche in sede disciplinare. Il procedimento sanzionatorio si è dunque legittimamente fondato su elementi probatori acquisiti nel processo penale, rispetto ai quali l’Amministrazione ha svolto una propria autonoma valutazione, come si evince dalla motivazione degli atti, che richiama puntualmente la documentazione e le risultanze del fascicolo penale, e non si limita a un mero rinvio alle sentenze.
Ciò posto, emerge dagli accertamenti penali che il ricorrente, nelle istanze presentate nel 2014, ha rappresentato che il figlio fosse affetto da un tumore di tale gravità da provocare gravi sofferenze, crisi di pianto e una condizione di particolare fragilità psicofisica, tale da rendere necessaria una costante assistenza paterna. Tuttavia, come accertato in sede penale, tale rappresentazione è risultata non veritiera. Il minore era affetto da un emangioma facciale benigno, di modesta entità, che non comportava dolore né particolari sofferenze, e per il quale l’eventuale intervento chirurgico aveva esclusiva finalità estetica.
Deve dunque ritenersi, come statuito dai giudici di merito, che le dichiarazioni rese all’Amministrazione fossero oggettivamente false e finalizzate a ottenere un indebito vantaggio, nella forma dell’aggregazione temporanea per motivi familiari.
Va precisato che, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, la mancata qualificazione formale delle istanze come dichiarazioni sostitutive ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 483 c.p., ove le dichiarazioni – come nella specie – siano comunque destinate a provare la verità di fatti rilevanti per l’adozione di un atto pubblico.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il delitto di falso ideologico del privato in atto pubblico può ritenersi integrato anche nel caso di dichiarazioni non formalmente inquadrabili nel modello tipico dell’art. 46 del d.P.R. n. 445/2000, purché tali dichiarazioni siano rese al pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, destinate a essere “recepite” come presupposto per l’efficacia dell’atto pubblico e a produrre effetti giuridici rilevanti (v. Cass., Sez. V, 20570/2006, Esposito; 21209/2006, Bartolazzi; 48681/2014, Sola). In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione nella sentenza Urso (Cass., Sez. V, n. 2978/2010), escludendo la configurabilità del reato soltanto nei casi in cui la dichiarazione, sebbene diretta a una pubblica autorità, non sia destinata a confluire in un atto pubblico né a provare la verità dei fatti in essa contenuti.
Il reato de quo risulta integrato anche sotto il profilo soggettivo. Le pronunce penali hanno infatti accertato che il ricorrente ha deliberatamente enfatizzato le condizioni cliniche del figlio, forzando i dati sanitari reali al fine di rappresentare una situazione familiare di tale gravità da giustificare l’istanza di aggregazione. Il comportamento è stato quindi qualificato come frutto di una consapevole e volontaria alterazione della verità, finalizzata al conseguimento di un vantaggio personale.
In conclusione, il reato di falso accertato in sede penale deve ritenersi effettivamente sussistente sulla base degli elementi acquisiti in quel giudizio, i quali sono stati legittimamente valorizzati anche in sede disciplinare.
15.2 – Inoltre, le condotte oggetto di contestazione integrano, per natura e gravità, gli estremi delle fattispecie previste dall’art. 7 del d.P.R. n. 737/1981, risultando pienamente rilevanti sotto il profilo sanzionatorio. In particolare, come riconosciuto nel provvedimento impugnato, tale comportamento: i) rivela una mancanza del senso dell'onore e del senso morale (punto 1), in quanto si fonda sull’abuso di una prerogativa concessa per fini di tutela familiare, sfruttata mediante rappresentazioni non veritiere; ii) si pone in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento (punto 2), che impone il rispetto dell’integrità, della lealtà e della trasparenza nei rapporti con l’Amministrazione; iii) integra una dolosa violazione dei doveri d’ufficio con effetti lesivi, quanto meno potenziali, per l’Amministrazione della pubblica sicurezza (punto 4); iv) e si inserisce, infine, in un quadro di persistente riprovevole condotta, alla luce dei precedenti disciplinari (§15.3).
Con riferimento, poi, alla censura di indeterminatezza normativa sollevata in udienza il 25 maggio 2025, in relazione alle espressioni contenute nel punto 1 dell’art. 7 del d.P.R. n. 737/1981 – segnatamente quelle riferite a “atti che rivelino mancanza del senso dell’onore o del senso morale” – si osserva che, pur trattandosi di formule ampie e a contenuto valutativo, esse non risultano di per sé incompatibili con i principi di legalità, determinatezza e tassatività dell’illecito.
Come chiarito dalla giurisprudenza, in particolare dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., SS.UU., 16 dicembre 2013, n. 27996 e, più di recente, n. 25457 del 26 ottobre 2017), tali principi trovano applicazione rigorosa in ambito penale, ma non si estendono sic et simpliciter alla materia disciplinare, la quale, per sua natura, si fonda su doveri deontologici e regole di condotta non sempre suscettibili di una rigida codificazione.
Le stesse Sezioni Unite hanno più volte affermato che, nell’ambito disciplinare (anche forense, ma con principi applicabili in via generale), non è necessaria una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti, essendo invece sufficiente la previsione di doveri fondamentali, la cui violazione può essere valutata con riferimento a clausole generali come quella in esame.
Del resto, l’ampiezza semantica dell’espressione contenuta nel n. 1 dell’art. 7 consente di ricondurre all’interno del paradigma normativo condotte potenzialmente gravissime, che, pur sfuggendo a una tipizzazione analitica, appaiono manifestamente incompatibili con i doveri propri del ruolo e con l’onore derivante dall’appartenenza all’Amministrazione della pubblica sicurezza. Tale apertura semantica è dunque funzionale a evitare un’irragionevole rigidità del sistema, che rischierebbe di lasciare impunite condotte riprovevoli solo perché non previste ex ante in modo specifico.
Come rilevato anche dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. consultiva, parere n. 5283 del 2 dicembre 2010), la presenza di clausole generali non è quindi di per sé lesiva del principio di legalità, purché l’Amministrazione motivi adeguatamente la sussunzione del fatto nella fattispecie astratta. In tal senso, il carattere generale delle espressioni, se da un lato comporta un più ampio margine di apprezzamento per l’Amministrazione, dall’altro impone a quest’ultima un maggiore onere motivazionale, affinché sia garantita la coerenza e la trasparenza dell’azione disciplinare, sotto il controllo del giudice amministrativo.
Nel caso di specie, tale onere risulta assolto: l’Amministrazione ha adeguatamente argomentato la riconducibilità della condotta accertata – connotata da un consapevole inganno a fini utilitaristici – a una grave violazione dell’etica pubblica e dei valori fondanti il rapporto fiduciario tra dipendente e Amministrazione, tale da integrare pienamente l’ipotesi sanzionatoria di cui al n. 1.
Anche sotto tale profilo, dunque, le censure sollevate dalla difesa del ricorrente risultano prive di consistenza e non valgono a mettere in discussione la legittimità dell’operato amministrativo.
15.3 – Inoltre, non risulta violato il principio di proporzionalità.
La sanzione espulsiva è stata irrogata in relazione a una condotta di particolare gravità sotto il profilo disciplinare, accertata mediante doppia pronuncia conforme in sede penale (Tribunale di Trapani, -OMISSIS-; Corte d’Appello di Xxxxx, -OMISSIS-), ritenuta idonea a integrare più ipotesi di illecito disciplinare ai sensi dell’art. 7 del d.P.R. n. 737/1981, nonché tale da compromettere in modo irreversibile il rapporto fiduciario con l’Amministrazione.
Inoltre, la valutazione della gravità non è stata operata isolatamente, ma collocata in un quadro più ampio, che ha tenuto conto della personalità del ricorrente e del suo pregresso disciplinare. Come evidenziato nel decreto del 19 aprile 2024, il ricorrente era già stato destinatario di dodici sanzioni: due richiami scritti, sei sanzioni pecuniarie e quattro sospensioni dal servizio. La maggior parte di tali provvedimenti ha carattere definitivo; solo alcuni risultano ancora sub iudice, essendo stati impugnati dinanzi a questo TAR. Tali precedenti delineano un comportamento complessivamente non conforme ai doveri di correttezza, lealtà e affidabilità propri del personale della Polizia di Stato.
Premesso che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la scelta della sanzione disciplinare rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, sindacabile solo in caso di manifesta irragionevolezza, arbitrarietà o travisamento dei fatti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25 gennaio 2022, n. 487), si deve concludere che, alla luce degli elementi sopra indicati – la gravità della condotta accertata, la sua incidenza sul vincolo fiduciario e i rilevanti precedenti disciplinari – la sanzione della destituzione risulta giustificata, proporzionata e immune dai vizi denunciati.
16 – In definitiva, per le considerazioni che precedono, la sanzione della destituzione risulta correttamente comminata, talché la domanda di annullamento proposta avverso tale provvedimento e gli atti presupposti deve essere rigettata.
17 – Deve parimenti essere rigettata la domanda risarcitoria proposta ai sensi dell’art. 2043 c.c., non risultando alcuna condotta illegittima imputabile al Ministero dell’Interno. Essendo il provvedimento di destituzione pienamente legittimo, sia sotto il profilo procedimentale che sostanziale, non ricorrono i presupposti per configurare un illecito dell’Amministrazione e, conseguentemente, per riconoscere un diritto al risarcimento del danno.
18 – I motivi aggiunti, con cui il ricorrente ha impugnato: i) il provvedimento del Ministero della Giustizia del 19 agosto 2024, recante il rigetto dell’istanza di transito nei ruoli civili; e ii) il provvedimento del Ministero dell’Interno del 20 agosto 2024, con cui è stata disposta l’archiviazione della procedura di transito, devono essere dichiarati inammissibili per sopravvenuta carenza di interesse.
Infatti, a seguito del rigetto del ricorso principale e della conferma della legittimità del provvedimento di destituzione, il ricorrente ha definitivamente cessato di appartenere all’Amministrazione della pubblica sicurezza e non può, pertanto, più accedere al transito nei ruoli civili, che presuppone proprio la sussistenza di un valido rapporto di servizio. Il venir meno del presupposto fondamentale su cui si fondava la domanda di transito – ossia la permanenza in servizio del ricorrente – comporta l’assenza attuale e concreta dell’interesse al gravame, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a., con conseguente inammissibilità dei motivi aggiunti proposti avverso i suddetti atti.
19 – Le spese di lite possono essere integralmente compensate tra le parti, avuto riguardo alla complessità delle questioni giuridiche esaminate e alle peculiari circostanze che hanno interessato la posizione soggettiva della parte ricorrente, coinvolta in un procedimento di destituzione, con conseguenti riflessi anche sul piano personale e professionale.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – Xxxxx, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando:
– rigetta il ricorso principale;
– dichiara inammissibili i motivi aggiunti;
– compensa tra le parti le spese di lite.
Ordina all’amministrazione di dare esecuzione alla presente decisione.
Così deciso in Xxxxx nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2025 con l'intervento dei magistrati:
Stefano Tenca, Presidente
Bartolo Salone, Primo Referendario
Andrea Illuminati, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Andrea Illuminati Stefano Tenca
IL SEGRETARIO
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