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22 luglio 2025

Corte Costituzionale 2025 - pronuncia della Corte Costituzionale relativa alla questione del tetto delle sei mensilità per l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese si articola come segue:

 

 

 Corte Costituzionale 2025 -  pronuncia della Corte Costituzionale relativa alla questione del tetto delle sei mensilità per l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese si articola come segue:

1. **Contesto normativo e oggetto della pronuncia**  
La sentenza n. 118/2023 della Corte Costituzionale affronta la legittimità costituzionale di una norma contenuta nel decreto legislativo n. 23/2015, in particolare l’articolo 9, comma 1. Questa norma stabilisce un limite massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento, come indennizzo per i licenziamenti illegittimi commessi da datori di lavoro di aziende con meno di 16 dipendenti (piccole imprese). La norma si applica nei casi in cui il licenziamento sia stato intimato da un datore di lavoro che non rientra nei requisiti dimensionali previsti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ossia nei casi di licenziamenti di aziende di piccole dimensioni.

2. **Il problema costituzionale**  
Il cuore della questione riguarda la compatibilità di questa limitazione con i principi costituzionali, in particolare con l’articolo 24 della Costituzione, che tutela il diritto alla giusta durata e tutela del rapporto di lavoro, e con l’articolo 3, che garantisce l’uguaglianza e la non discriminazione tra lavoratori. La norma, imponendo un limite massimo indennitario, potrebbe essere ritenuta lesiva del diritto di ogni lavoratore ad un’adeguata tutela economica in caso di licenziamento illegittimo, creando una disparità di trattamento tra lavoratori di aziende di diversa dimensione e, quindi, potenzialmente, una violazione del principio di uguaglianza.

3. **La motivazione della Corte**  
La Corte Costituzionale ha valutato che il limite di sei mensilità, nel contesto delle piccole imprese, può risultare incostituzionale se compromette in modo eccessivo la tutela del lavoratore, soprattutto in relazione alla gravità del licenziamento illegittimo e alla necessità di garantire un’effettiva riparazione del danno subito. La Corte ha sottolineato che la tutela in materia di lavoro deve essere adeguata e completa, e che la fissazione di un limite rigido potrebbe essere in contrasto con i principi di proporzionalità e di tutela effettiva sanciti dalla Costituzione.

4. **L'interpretazione della norma**  
Nel pronunciare la sentenza, la Corte ha anche richiamato l’articolo 9 del decreto legislativo n. 23/2015, che intendeva favorire la snellezza e la semplificazione dei processi e delle risposte nelle controversie di lavoro, ma senza pregiudicare i diritti fondamentali dei lavoratori. La Corte ha quindi evidenziato che la norma in questione, se interpretata rigidamente, rischia di limitare eccessivamente l’indennizzo, rendendolo sproporzionato rispetto alle aspettative di tutela dei lavoratori.

5. **Le implicazioni pratiche e il dibattito politico**  
La sentenza rappresenta un importante step nel dibattito sulla tutela dei lavoratori nelle piccole imprese e sulla compatibilità delle norme di legge con i principi costituzionali. La decisione può portare a una revisione legislativa o a un’interpretazione più flessibile delle norme, affinché si garantisca una tutela più adeguata per i lavoratori licenziati illegittimamente. Ricordiamo che, nel mese di giugno, si svolse anche un referendum che coinvolse questi temi, evidenziando l’interesse pubblico e la rilevanza politica della materia.

**In conclusione**, la Corte Costituzionale ha stabilito che il tetto delle sei mensilità per l’indennità risarcitoria nei licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese può risultare incostituzionale se si traduce in una tutela troppo limitata, contraria ai principi di proporzionalità e di tutela effettiva sanciti dalla Costituzione. Questa pronuncia apre la strada a possibili interventi legislativi volti a garantire una tutela più equilibrata e conforme ai valori costituzionali.

 

 

 

SENTENZA N. 118

ANNO 2025

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Giovanni AMOROSO;

Giudici: Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra A. O. e H. srl con ordinanza del 2 dicembre 2024, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2025.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 23 giugno 2025 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi;

deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2025.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 2 dicembre 2024, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2024, il Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui detta i criteri di determinazione delle indennità risarcitorie nel caso di licenziamenti illegittimi, adottati da datori di lavoro che non raggiungano i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento)(statuto dei lavoratori), in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 35, primo comma, 41, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea (CSE), adottata a Torino il 18 ottobre 1961 e riveduta, con annesso, a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30.

1.1.– Il giudice rimettente premette di essere stato adito da una ex dipendente di una società di capitali (H. srl) per ottenere, in via principale, l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatole per insussistenza del fatto materiale contestato, con conseguente reintegrazione della stessa e risarcimento del danno ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015; in via subordinata, l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, in quanto intimato in violazione dell’art. 7 statuto lavoratori e, per l’effetto, la condanna della società al pagamento di un’indennità non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, in applicazione dell’art. 4 del medesimo d.lgs. n. 23 del 2015.

Il rimettente ricorda, inoltre, che la società resistente, costituitasi tardivamente in giudizio, ha chiesto il rigetto delle domande e ha opposto l’inapplicabilità, nella specie, degli artt. 3, comma 2, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, essendo queste ultime disposizioni inerenti solo a datori di lavoro che raggiungono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, della legge n. 300 del 1970 (e cioè che non occupino più di quindici dipendenti presso un’unità produttiva o nell’ambito di un comune e che comunque non occupino più di sessanta dipendenti), laddove la società in questione ha avuto alle proprie dipendenze al massimo quattordici lavoratori, come risulta dal certificato camerale.

Nell’ordinanza di rimessione è, infine, precisato che risulta incontestato, anzitutto, che la ricorrente è stata assunta dalla società convenuta con contratto a tempo indeterminato a far data dal 1° aprile 2015 ed è stata licenziata per giusta causa il 30 settembre 2021, senza essere mai stata destinataria, nei sei anni di lavoro, di alcun provvedimento disciplinare scritto e senza aver ricevuto la lettera di contestazione prima dell’irrogazione della sanzione espulsiva. Si rileva, inoltre, che il datore di lavoro (la H. srl) è una società di capitali che si occupa, dal 1991, di manutenzione ordinaria e straordinaria di macchine e apparecchi per il trattamento della carta nei centri di elaborazione dati e nell’industria, con un capitale sociale di 590.000 euro e un fatturato di circa 3.931.947 euro per l’anno 2022 e di 4.730.253 euro per l’anno 2023.

1.2.– Tanto premesso, il Tribunale di Livorno solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui prevede che, nel caso di licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro che non raggiungano i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, l’ammontare delle indennità risarcitorie stabilite dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo in esame sia dimezzato e non possa comunque superare il limite massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

Tale previsione si porrebbe anzitutto in contrasto con l’art. 3, commi primo e secondo, Cost., in quanto determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti di datori di lavoro/imprese con più di quindici occupati – che, a seconda della gravità del vizio dell’atto espulsivo, potrebbero fruire della tutela reintegratoria insieme a quella indennitaria, ovvero della sola tutela monetaria, quantificabile però fino alla rilevante misura di trentasei mensilità – e lavoratori dipendenti di datori di lavoro/imprese “sottosoglia” che, invece, oltre a vedersi sempre preclusa la tutela reale, sarebbero destinatari di una tutela indennitaria costretta in una forbice ridottissima, da tre a sei mensilità, tale da non consentire al giudice di distinguere la tutela in funzione del vizio, anche importante, che inficia l’atto espulsivo. Un simile diverso trattamento, in quanto collegato all’esclusivo criterio delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, dipenderebbe, peraltro, da un elemento esterno al rapporto di lavoro, per giunta non più idoneo, di per sé, a rivelare la forza economica del datore.

Nel prevedere il dimezzamento dell’indennità risarcitoria e il tetto massimo delle sei mensilità, la norma censurata finirebbe, inoltre, per trattare in modo sostanzialmente eguale anche i dipendenti di datori di lavoro sottosoglia, disegnando una tutela standardizzata e tanto ridotta da risultare incapace di confrontarsi con ipotesi connotate, quanto al vizio attinente al licenziamento, anche in termini molto diversi, senza consentire quindi una personalizzazione del risarcimento in relazione alle circostanze del caso di specie, né garantirne l’adeguatezza e congruità oltre che il ruolo deterrente.

L’art. 9, comma 1, del citato decreto legislativo sarebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 41, secondo comma, Cost., in quanto l’assenza di un indennizzo adeguato a fronte di licenziamenti illegittimi recherebbe danno alla libertà e alla dignità umana anche nella piccola impresa e non solo in quella di grandi dimensioni.

Risulterebbe, poi, violato l’art. 4, primo comma, Cost., là dove impone di rimuovere gli ostacoli alla stabilità dell’occupazione tra i quali rileva, «in modo preponderante», la previsione di una sanzione con efficacia dissuasiva a fronte di provvedimenti espulsivi illegittimi, nonché l’art. 35, primo comma, Cost., che prescrive la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, rendendo necessaria l’esistenza di una ragione giustificatrice alla base del recesso.

Infine, la disposizione censurata sarebbe lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 CSE, in quanto violerebbe il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, «ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» e ad una tutela indennitaria «che abbia un’idonea forza compensativa di quanto il lavoratore ha perso a causa del licenziamento illegittimo e dissuasiva nei confronti del datore di lavoro artefice dell’atto espulsivo viziato».

1.2.1.– In punto di rilevanza, il rimettente afferma di non poter definire il giudizio pendente dinanzi a sé indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate nei termini sopra indicati.

Posto che il licenziamento, pur inficiato da illegittimità molto gravi, non sarebbe nullo, la tutela applicabile sarebbe quella individuata dall’art.18, quarto comma, statuto lavoratori, cui corrisponde, nel regime delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015, la tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2. Tuttavia, il rimettente rileva che tale tutela risulta erroneamente evocata, dato che è provato che la società/datrice di lavoro non ha mai avuto più di 14 dipendenti. Pertanto, il Tribunale si dichiara tenuto ad applicare la tutela che la legge prevede a fronte del vizio in concreto riscontrato, come chiarito a più riprese dalla Corte di cassazione (di cui vengono citati alcuni arresti). Dal momento che il licenziamento per cui è causa sarebbe affetto dal vizio procedimentale dell’omessa contestazione con violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, dal mancato assolvimento dell’onere di provare il fondamento dell’atto espulsivo, nonché dall’insussistenza del fatto, il rimettente, a fronte dell’assenza del requisito dimensionale, assume di dover applicare il combinato disposto degli artt. 3 e 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, che, oltre a prevedere il dimezzamento della tutela indennitaria rispetto a quella stabilita nel caso di licenziamenti nelle imprese sopra soglia, ne fissa il limite massimo in sei mensilità: «ciò che conferma la rilevanza della questione di legittimità costituzionale».

Neppure sarebbe praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, pure sollecitata dalla parte ricorrente, in quanto l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sarebbe estremamente chiaro nella sua portata letterale, prevedendo, in maniera inequivocabile, che l’indennità parametrata a quella di cui agli artt. 3, comma 1, e 4, comma 1, del medesimo decreto legislativo (per quanto qui interessa) sia dimezzata e, comunque, non superi in alcun caso il limite delle sei mensilità.

In conclusione, il rimettente – nel ribadire che l’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità, da un lato, e il solo richiamo al criterio anacronistico del numero dei dipendenti, dall’altro, configurerebbero una normativa primaria costituzionalmente illegittima – sottolinea come questa Corte, già nella sentenza n. 183 del 2022, abbia accertato tale vizio, pur dichiarando l’inammissibilità delle questioni allora sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in considerazione del rischio di uno sconfinamento nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore, a causa delle plurime possibilità esistenti nella scelta delle soluzioni normative elaborabili per fronteggiare il vulnus evidenziato.

Nonostante tale affermazione, il rimettente ricorda anche come la stessa sentenza n. 183 del 2022 abbia non solo messo in rilievo che l’apprezzamento discrezionale del legislatore è comunque «vincolato al rispetto del principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e di trascurare la specificità del caso concreto» ma, conclusivamente, abbia anche affermato di non poter «esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte».

Su tali premesse, il rimettente ritiene che l’orizzonte temporale che questa Corte ha inteso dare al legislatore per eliminare il vulnus riscontrato sia già esaurito, considerato che l’inerzia di quest’ultimo si era protratta, alla data dell’adozione dell’ordinanza di rimessione, per ben più di due anni, e che la disciplina censurata si applica alla «quasi totalità delle imprese nazionali» – come emerge dagli ultimi dati resi disponibili dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) nell’Annuario 2023 – e alla «gran parte dei lavoratori», «di talché l’urgenza di provvedere risulta francamente non ulteriormente procrastinabile».

Pertanto, il rimettente chiede che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «e l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, dall’articolo 4, comma 1 e dall’articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità», con la «conseguente spettanza della tutela indennitaria di cui agli artt. 3, co. 1, 4, co. 1 e 6, co. 1 a seconda della fattispecie concreta anche nel caso di datore di lavoro c.d. sottosoglia».

2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia dichiarata inammissibile.

L’Avvocatura generale dello Stato ritiene che, poiché si lamenta l’irrisorietà della determinazione dell’indennità, si rimetterebbe a questa Corte «la possibile rideterminazione in diversa misura di quanto previsto dal legislatore nell’esercizio del proprio potere discrezionale». Posto che quest’ultima non può intervenire nelle ipotesi in cui si tratti di scegliere tra più opzioni normative, tutte ugualmente conformi a Costituzione, perché, così facendo, interferirebbe nella sfera della discrezionalità del legislatore, anche ove dovesse ritenere fondata la questione, «la presenza di diverse possibili opzioni normative non consentirebbe alla stessa di colmare il vuoto normativo determinato da una eventuale pronuncia di illegittimità» costituzionale.

L’Avvocatura generale dello Stato puntualizza di non ignorare il precedente rappresentato dalla sentenza n. 183 del 2022, nella quale il legislatore è stato invitato a compiere una nuova valutazione sulla «scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di “una normativa di importanza essenziale” (sentenza n. 150 del 2020), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso». Tuttavia, rileva che, nella medesima decisione, questa Corte ha evidenziato che «la materia di cui si discute, “frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie”».

Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, inoltre, non potrebbe dirsi sussistente quell’ulteriore «protrarsi dell’inerzia legislativa» al quale questa Corte ha subordinato la possibilità di un proprio intervento sulla materia in esame, «ove nuovamente investita». Pur non risultando, allo stato, iniziative legislative di carattere parlamentare, l’interveniente ricorda che, nelle more, è stata promossa una iniziativa referendaria, ai sensi dell’art. 75 Cost., tendente all’integrale abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015, che avrebbe indotto il legislatore ad attendere l’esito della suddetta iniziativa referendaria.

In definitiva, la questione di legittimità costituzionale in esame sarebbe, dunque, inammissibile, per le medesime ragioni già compiutamente indicate nella richiamata sentenza n. 183 del 2022. Peraltro, la scelta del legislatore di attendere l’esito dell’iniziativa referendaria in corso, prima di esercitare la sua discrezionalità in una materia così delicata quale quella in esame, escluderebbe la stessa configurabilità di una inerzia protrattasi nel tempo, tale da giustificare un ipotetico intervento caducatorio sulla normativa attualmente vigente.

3.– In applicazione dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’Associazione Comma2 - Lavoro è dignità ha depositato una opinione, in qualità di amicus curiae, ammessa con decreto presidenziale del 20 maggio 2025.

Nell’aderire agli argomenti svolti nell’ordinanza, l’associazione ricorda come, al fine di rimediare al vulnus accertato nella sentenza n. 183 del 2022, si fossero ipotizzati, in dottrina, già due possibili tipi di intervento: il primo, corrispondente a quello indicato dall’odierno rimettente, volto a far venir meno sia il dimezzamento della misura delle indennità previste dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sia il limite massimo di sei mensilità; il secondo volto a far venir meno solo il limite massimo delle sei mensilità, cosicché, conservandosi la regola del dimezzamento dell’indennizzo, si sarebbe potuta assicurare una tutela fissata entro un divario ragionevole e tale da consentire al giudice di modulare in modo adeguato la sua entità, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, tenendo conto di vari criteri, fra cui, in un ruolo preponderante, le dimensioni dell’attività economica del datore di lavoro.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe (n. 240 reg. ord. 2024), dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in riferimento agli artt. 3, commi primo e secondo, 4, primo comma, 35, primo comma, 41, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE.

1.1.– Il rimettente ritiene che tale disposizione, nel determinare l’indennizzo risarcitorio per i licenziamenti illegittimi intimati da un datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che non raggiunga i requisiti occupazionali stabiliti dall’ottavo comma dell’art. 18 statuto lavoratori (e cioè che non occupi più di quindici lavoratori presso un’unità produttiva o nell’ambito di un comune e che comunque non occupi più di sessanta dipendenti), finisca per configurare una misura non idonea a garantire il necessario equilibrio tra la possibilità di prevedere una tutela solo di tipo risarcitorio-monetario e la necessità che tale indennizzo risulti adeguato a riparare il pregiudizio sofferto nel caso concreto, così mantenendo un ruolo deterrente. Tale effetto si produrrebbe, in ispecie, là dove il citato art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, delimita l’indennizzo, sia disponendo il dimezzamento delle somme stabilite dai precedenti artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del medesimo decreto legislativo, sia imponendo un tetto massimo insuperabile fissato in sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

In tal modo, la disposizione censurata sarebbe lesiva dell’art. 3, commi primo e secondo, Cost., in quanto finirebbe per disegnare una tutela standardizzata e inidonea a coprire fattispecie di licenziamento connotate da vizi di differente gravità, trattando in modo sostanzialmente eguale anche situazioni concrete molto diverse, senza consentire la «personalizzazione» del risarcimento in relazione alle circostanze del caso di specie, né garantirne l’adeguatezza e la congruità oltre che la funzione deterrente. La medesima violazione è contestata anche sotto l’ulteriore profilo del trattamento irragionevolmente diverso di situazioni simili: da un lato, quella dei dipendenti di datori di lavoro con più di quindici occupati, i quali, ove colpiti da licenziamento illegittimo, dispongono di una tutela graduata a seconda della gravità del vizio; dall’altro, quella dei dipendenti di un datore di lavoro con meno di quindici occupati, che invece, quando risultino anch’essi vittime di provvedimento espulsivo illegittimo, possono usufruire di una tutela indennitaria costretta in una forbice ridottissima, da tre a sei mensilità. Quest’ultima impedirebbe al giudice di calibrare il risarcimento in funzione della gravità del vizio che inficia il licenziamento, e ciò in applicazione di un criterio – quello delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro – riferito a un profilo esterno al rapporto di lavoro, peraltro non più idoneo, di per sé, a rivelare la reale forza economica del datore medesimo.

Per le stesse ragioni sarebbe anche violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 CSE – cui questa Corte ha ormai più volte riconosciuto l’attitudine «a valere come parametro interposto ex art. 117, primo comma, Cost.» (sentenza n. 7 del 2024) – essendo leso il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione. Sarebbero, di conseguenza, violate anche la dignità e libertà del lavoratore che costituiscono un limite all’iniziativa economica privata ex art. 41, secondo comma, Cost. Sarebbero lesi, infine, gli artt. 4 e 35 Cost., i quali, imponendo di tutelare il lavoro in tutte le sue forme, prescriverebbero un congruo indennizzo, anche per dissuadere il datore di lavoro dall’adottare licenziamenti illegittimi.

1.2.– Sebbene le censure siano formulate in riferimento a parametri diversi, esse presentano un nucleo comune unitario che si svela nella identità o, comunque, nella reciproca implicazione degli argomenti svolti a loro sostegno e induce a esaminarle come profili di un’unica questione.

Quest’ultima può sintetizzarsi nell’asserita irragionevole limitazione della tutela indennitaria – prevista per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro “sottosoglia” – lesiva del diritto del lavoratore a un indennizzo adeguato a difenderne dignità e libertà. Per rimuovere l’offesa ai suddetti beni presidiati dai parametri evocati, il rimettente chiede che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale sia della previsione del dimezzamento delle indennità di cui agli artt. 3, comma 1, 4, comma 1 e 6, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sia del limite massimo delle sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

2.– La questione è fondata in riferimento a tutti i parametri indicati, limitatamente, tuttavia, alla previsione in base alla quale l’ammontare delle indennità risarcitorie di cui agli artt. 3, comma 1, 4, comma 1 e 6, comma 1, «non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità» dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

2.1.– Fin da tempo risalente, questa Corte ha ricondotto la tutela contro i licenziamenti illegittimi agli artt. 4 e 35 Cost. e alla configurazione ivi tratteggiata del diritto al lavoro quale «fondamentale diritto di libertà della persona umana» (sentenza n. 45 del 1965), tale da imporre al legislatore di circondare di «doverose garanzie» per il lavoratore e «di opportuni temperamenti» (ancora sentenza n. 45 del 1965) il recesso del datore di lavoro, garantendo così il diritto del lavoratore «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991).

A tutela di tale diritto, fino al 2012, era stata riconosciuta in maniera generalizzata la tutela reintegratoria, sebbene solo nel caso di licenziamenti illegittimi intimati in presenza dei requisiti occupazionali di cui ai commi ottavo e nono dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Successivamente, nell’ambito di radicali riforme del regime dei licenziamenti, il raggio applicativo della tutela in discorso è stato progressivamente ridotto. Il ridimensionamento di quest’ultima è avvenuto per effetto dapprima dell’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) e poi del d.lgs. n. 23 del 2015, che l’ha circoscritta a ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro, facendo invece assumere portata generale alla tutela indennitario-monetaria.

Tale mutamento di impostazione dei modelli di tutela del lavoro, in relazione ai licenziamenti illegittimi, riflette scelte che – come questa Corte ha più volte ricordato – sono rimesse alla discrezionalità del legislatore, «in rapporto ovviamente alla situazione economica generale» (sentenza n. 194 del 1970), considerato che «quello della tutela reale non costituisce l’unico paradigma possibile (vedi sentenza n. 46 del 2000)» (sentenza n.7 del 2024). Non a caso l’obbligatorietà di una simile tutela è stata esclusa dalla legge – senza che ciò configurasse una violazione della Costituzione – nell’ipotesi di licenziamenti illegittimi da parte di un datore di lavoro/impresa che non raggiungesse i requisiti occupazionali indicati dall’art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, in ispecie in considerazione della natura fiduciaria del rapporto di lavoro nell’ambito delle descritte realtà organizzative e della necessità di evitare le tensioni che l’esecuzione di un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare, oltre che dell’opportunità di non gravarle di oneri eccessivi (sentenze n. 2 del 1986, n. 152 e n. 189 del 1975).

Proprio con riferimento al d.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte ha ritenuto compatibile con la Carta fondamentale una tutela meramente monetaria, purché improntata ai canoni di effettività e di adeguatezza, rilevando che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., «terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore», non impone «un determinato regime di tutela» (sentenza n. 194 del 2018). In altri termini, il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela contro i licenziamenti illegittimi anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), a condizione, tuttavia, che tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza e muova dalla considerazione che il licenziamento illegittimo, ancorché «idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito» (sentenza n. 194 del 2018).

In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria deve essere configurata in modo tale da consentire al giudice di modularla alla luce di una molteplicità di fattori (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro, comportamento e condizioni delle parti) al fine di soddisfare l’«esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, […] imposta dal principio di eguaglianza» (ancora sentenza n. 194 del 2018).

Pertanto, con la pronuncia da ultimo citata, questa Corte ha affermato che «[l]a previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse», in violazione, quindi, del principio di eguaglianza.

Pur nel riconoscimento dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore, la predeterminazione dell’indennità risarcitoria deve tendere, con ragionevole approssimazione, ma sempre nel rispetto del dettato costituzionale, a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Non può, pertanto, discostarsene in misura apprezzabile, come può avvenire quando si adotta un meccanismo rigido e uniforme (sentenza n. 150 del 2020).

2.2.– Tali indicazioni inerenti alla ragionevolezza e adeguatezza della tutela indennitaria si impongono anche per i licenziamenti intimati dai «datori di lavoro di più piccole dimensioni» (sentenza n. 183 del 2022), in quanto caratterizzati da requisiti occupazionali più ridotti rispetto a quelli contemplati dai citati commi ottavo e nono dell’art. 18 statuto lavoratori.

L’assunto conserva significato pur a fronte delle modifiche di sistema apportate dal d.lgs. n. 23 del 2015.

È vero che quest’ultimo, da un lato, ha fortemente circoscritto lo spazio di operatività della tutela reintegratoria piena – rendendola applicabile, in specifici e tassativi casi, senza alcuna distinzione riferita ai requisiti occupazionali – e, dall’altro, ha generalizzato la tutela indennitaria anche per i datori di lavoro di maggiori dimensioni.

Tuttavia, ai fini della selezione della disciplina dei licenziamenti, e in linea di continuità con il passato (sentenza n. 44 del 2024), è stata comunque confermata la rilevanza della dimensione dell’impresa, in termini di numero di lavoratori occupati, anche con riguardo alla determinazione dell’indennità risarcitoria.

In particolare, proprio per il caso in cui il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali più volte ricordati, l’art. 9, comma 1, del citato decreto legislativo, censurato dal giudice rimettente, per un verso, ha escluso la tutela reintegratoria attenuata prevista per i casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, comma 2); per altro verso, ha stabilito che «è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità» l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti nei casi di licenziamento: (a) senza giustificato motivo o giusta causa (per il quale l’art. 3, comma 1, prevede un importo di «misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità»); (b) inficiato da vizi formali o procedurali (in conseguenza del quale l’art. 4, comma 1, consente di conseguire un importo di «misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità»); (c) al quale segua l’offerta di conciliazione e l’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore illegittimamente licenziato (ipotesi per la quale l’art. 6, comma 1, contempla un «ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità»).

2.2.1.– Questa Corte, nella sentenza n. 183 del 2022, si è già pronunciata su tali previsioni, ravvisandovi la sussistenza di un vulnus agli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE.

La lesione dei richiamati parametri costituzionali (che sono gli stessi oggi evocati dal Tribunale di Livorno) si è, infatti, rinvenuta in ragione dell’«esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità» («tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità», in riferimento a quanto previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015), poiché essa «vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza», alla luce di «tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte», concorrendo a configurare il licenziamento come extrema ratio.

Peraltro, si è anche osservato che «il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge» trova la sua principale (se non esclusiva) giustificazione nel numero ridotto dei dipendenti che non rispecchia più, isolatamente considerato, l’effettiva forza economica del datore di lavoro, specie «in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi», in cui «al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari».

E ancora si è sottolineato che «[i]l limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza».

In definitiva, si è concluso che un simile sistema «non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi».

A tale vulnus, tuttavia, questa Corte ha ritenuto allora di non poter porre rimedio, giacché le argomentazioni addotte dal rimettente prefiguravano «una vasta gamma di alternative» volte a ridisegnare il regime speciale previsto per i datori di lavoro di piccole dimensioni, a partire dalla stessa individuazione dei criteri di identificazione di questi ultimi.

Si era, pertanto, segnalata la necessità che la materia, «frutto di interventi normativi stratificati», fosse «rivista in termini complessivi», ben potendo il legislatore «tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano». Tuttavia, si era, comunque, affermato che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe stato tollerabile e, ove la questione fosse stata nuovamente sollevata, questa Corte sarebbe stata indotta a «provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte».

2.2.2.– Il Tribunale di Livorno ripropone all’attenzione di questa Corte i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in riferimento ai medesimi parametri esaminati nella sentenza n. 183 del 2022, in considerazione del quadro normativo immutato a distanza di più di due anni dalla citata pronuncia e della circostanza che la disciplina sub iudice – di cui si era accertata la non compatibilità con i richiamati parametri costituzionali – si applica, come emerge dai dati ISTAT (Annuario 2023), alla «quasi totalità delle imprese nazionali» e quindi alla «gran parte dei lavoratori».

Il rimettente denuncia l’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità risarcitoria, effetto della contestuale previsione del dimezzamento degli importi indicati agli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del citato d.lgs. n. 23 del 2015, «in uno con la previsione di un tetto massimo […] limitato (“sei mensilità”)», tale da non consentire di soddisfare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento, e di garantirne la funzione deterrente. Chiede pertanto che venga eliminato tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro con un numero limitato di dipendenti, in vista della riespansione della tutela indennitaria “ordinaria” e del potere discrezionale del giudice di determinarne l’ammontare alla luce dei vari criteri. Tra questi, quello del numero dei dipendenti occupati costituisce sicuramente il primo, ma non l’unico, dovendo essere considerato insieme alle dimensioni dell’impresa, oltre che all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro e al comportamento e alle condizioni delle parti.

Ciò sul presupposto che la richiamata tutela indennitaria speciale non possa trovare giustificazione solo nel numero limitato dei dipendenti, non essendo più tale criterio, isolatamente considerato, sufficiente a rivelare, sempre e comunque, la minore forza economica del medesimo datore. Si tratta di una prospettiva allineata non solo alla normativa europea anche risalente – (raccomandazione CE 2003/361 della Commissione, del 6 maggio 2003, relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese; di recente, direttiva delegata (UE) 2023/2775 della Commissione, del 17 ottobre 2023, che modifica la direttiva 2013/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda gli adeguamenti dei criteri dimensionali per le microimprese e le imprese o i gruppi di piccole, medie e grandi dimensioni) –, ma anche alla normativa interna, pur relativa ad altri ambiti (art. 1, comma 2, del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, recante «Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80»; più di recente, art. 2 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, recante «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155»).

Il rimettente, in altri termini, ravvisa la reductio ad legitimitatem non già – come era accaduto nel caso oggetto della sentenza n. 183 del 2022 – in interventi sostitutivi, atti a incidere sui criteri di individuazione del datore di lavoro “piccolo” (cioè dotato di una ridotta forza economica), in assenza di utili punti di riferimento normativo, bensì nel mero annullamento della disciplina speciale stabilita dalla norma censurata per i licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro con un numero limitato di dipendenti. L’obiettivo, in sostanza, è quello di eliminare la rigidità e la tendenziale uniformità nella determinazione dell’indennità risarcitoria, già dimezzata rispetto a quella ordinariamente prevista, quale che sia il vizio che affligge il licenziamento.

2.2.3.– Il tempo trascorso e, soprattutto, la formulazione dell’odierna questione – che non mira a un intervento altamente manipolativo, volto a ridisegnare la tutela speciale per i datori di lavoro sotto soglia in assenza di punti di riferimento univoci, ma solo a eliminare la significativa delimitazione dell’indennità risarcitoria – impongono a questa Corte di pronunciarsi, dichiarando il già accertato vulnus ai principi costituzionali.

Tale vulnus, tuttavia, non si ravvisa nella previsione del dimezzamento degli importi delle indennità previste dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 23 del 2015, modulabili all’interno di una forbice, diversamente individuata in relazione a ciascun tipo di vizio, ma sempre sufficientemente ampia e flessibile, perché compresa fra un minimo e un massimo, tra i quali c’è un ampio divario. Così delineato, infatti, il meccanismo del dimezzamento è comunque tale da non impedire al giudice di tener conto della specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, e di fare applicazione dei criteri indicati da questa Corte, fra i quali quello delle dimensioni dell’attività economica del datore di lavoro svolge un ruolo certamente rilevante, ma senz’altro non esclusivo, «nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco» (sentenza n. 150 del 2020), inerenti, da un lato, alla tutela del lavoratore contro licenziamenti ingiustificati, dall’altro, all’esigenza di non gravare di costi eccessivi i piccoli datori di lavoro.

Quel che confligge con i principi costituzionali, dando luogo a una tutela monetaria incompatibile con la necessaria «personalizzazione del danno subito dal lavoratore» (sentenza n. 194 del 2018), è piuttosto l’imposizione di un tetto, stabilito in sei mensilità di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, che comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità.

Tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro – che si impone sul limite massimo specificamente previsto in relazione a ciascun tipo di vizio e già oggetto di dimezzamento con riguardo ai datori di lavoro con un numero limitato di dipendenti, per effetto del medesimo art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 – delinea un’indennità stretta in un divario così esiguo (ad esempio, da tre a sei mensilità nel caso dei licenziamenti illegittimi di cui all’art. 3, comma 1, del citato decreto legislativo) da connotarla al pari di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata. Ma una siffatta liquidazione è stata già ritenuta da questa Corte inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costituire un ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza. Tale ristoro può essere delimitato, ma non sacrificato neppure in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi, al cospetto di un licenziamento illegittimo che l’ordinamento, anche nel peculiare contesto delle piccole realtà organizzative, qualifica comunque come illecito (sentenza n. 150 del 2020).

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».

Resta fermo l’auspicio che il legislatore intervenga sul profilo inciso dalla presente pronuncia, nel rispetto del principio, qui affermato, secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale, richiamata in precedenza (punto 2.2.2.).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice

Valeria EMMA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2025

 

La versione anonimizzata è conforme, nel testo, all'originale

 

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