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03 agosto 2025

Tar 2025 - La sig.ra -OMISSIS- ha partecipato a una procedura selettiva per l'accesso alla Polizia di Stato. Ha superato la prova scritta e si è presentata per l’accertamento dei requisiti psico-fisici, ma è stata esclusa dalla commissione medica a causa di un tatuaggio visibile in zona non coperta dall’uniforme (gamba sinistra). La decisione si basa su norme specifiche e regolamentari, che prevedono il divieto di tatuaggi visibili con le uniformi di servizio.

 

Tar 2025 - La sig.ra -OMISSIS- ha partecipato a una procedura selettiva per l'accesso alla Polizia di Stato. Ha superato la prova scritta e si è presentata per l’accertamento dei requisiti psico-fisici, ma è stata esclusa dalla commissione medica a causa di un tatuaggio visibile in zona non coperta dall’uniforme (gamba sinistra). La decisione si basa su norme specifiche e regolamentari, che prevedono il divieto di tatuaggi visibili con le uniformi di servizio.

2. **Motivazione dell’esclusione**:  
L’organo collegiale ha valutato che, al momento della visita medica, la ricorrente aveva un tatuaggio visibile (a forma di fiore) sulla parte bassa esterna della gamba sinistra, che, indossando la gonna e le scarpe décolleté previste dall’uniforme femminile, risulta visibile. Di conseguenza, sulla base delle norme applicate, è stata esclusa dalla procedura di reclutamento.

3. **Normativa applicata**:  
L’esclusione si basa sul combinato disposto dell’art. 3, co. 2, e della tabella 1, punto 2, lett. b) del decreto del Ministero dell’Interno del 30 giugno 2003, n. 198. Questi prevedono il divieto di tatuaggi visibili con le uniformi di servizio, con una distinzione di trattamento tra uomini e donne.  
- **Per gli uomini**: il parametro di "visibilità" si considera in relazione all’uso del pantalone e delle calzature ordinariamente avvolgenti, che coprono le parti del corpo con tatuaggi visibili.  
- **Per le donne**: invece, la gonna e le scarpe décolleté rendono più visibili le parti del corpo, e quindi un tatuaggio che potrebbe essere coperto con un abbigliamento più completo può diventare visibile, provocando l’esclusione.

4. **Discriminazione di genere**:  
La pronuncia mette in evidenza come il criterio di visibilità del tatuaggio impatti in modo diverso sul sesso del candidato, creando una disparità di trattamento.  
- **Per gli uomini**: tatuaggi in determinate zone possono essere coperti facilmente con l’uniforme.  
- **Per le donne**: le uniformi previste (gonna e scarpe décolleté) rendono più facile la visibilità di tatuaggi in zone che, per gli uomini, sarebbero considerate coperte, determinando un trattamento più restrittivo.

5. **Questioni di diritto europeo (pregiudiziali)**:  
Il Tribunale ha deciso di sollevare questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 TFUE.  
- **Motivazione**: La norma nazionale applicata potrebbe essere in contrasto con il principio di non discriminazione e con i principi di proporzionalità e di tutela dei diritti fondamentali riconosciuti dal diritto dell’UE.

6. **Provvedimenti del TAR**:  
Il Tribunale, sospendendo il giudizio principale, ha disposto:
- La trasmissione alla Corte di Giustizia di una copia conforme dell’ordinanza e dell’intero fascicolo di causa.  
- La rimessione delle questioni pregiudiziali, con riserva di ulteriori decisioni sul merito e sulle spese, fino alla definizione del giudizio europeo.

7. **Implicazioni**:  
La pronuncia evidenzia come le norme nazionali applicate possano essere soggette a scrutinio in sede europea, specialmente quando si tratta di discriminazioni di genere o di libertà fondamentali. La questione principale riguarda la compatibilità di norme interne che differenziano il trattamento dei candidati in base al sesso, sulla base di criteri di visibilità del tatuaggio, con il diritto dell’UE.

**Conclusione**:  
Il commento evidenzia un caso emblematico di come le normative interne sul decoro e l’immagine personale possano entrare in conflitto con i principi di parità e non discriminazione sanciti dall’ordinamento europeo. La decisione di sollevare questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia rappresenta un passo importante per chiarire se tali norme siano compatibili con il diritto UE, soprattutto in relazione alle norme sulla discriminazione di genere e ai diritti fondamentali.



Pubblicato il 30/04/2025
N. 08482/2025 REG.PROV.COLL.
N. 05222/2024 REG.RIC.           
 
REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Quater)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 5222 del 2024, integrato da motivi aggiunti, proposto da


-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Xxxx Xxxx, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;


contro
Ministero dell'Interno-Dipartimento della pubblica sicurezza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento,
per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
- del provvedimento/verbale di accertamento dell'idoneità psico-fisica redatto ed emesso dal Ministero dell'Interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, in data 1° marzo 2024, codice ID 1673466, rilasciato in copia e consegnato ai fini della notifica nella medesima data del 1° marzo 2024, con il quale la ricorrente è risultata non idonea alla partecipazione al concorso per l'assunzione di n. 1.650 allievi agenti della Polizia di Stato, indetto con decreto del Capo della Polizia, Direttore generale della pubblica sicurezza del 7 luglio 2023, pubblicato sulla G.U.R.I. 4^ Serie Speciale “Concorsi ed Esami” del 11 luglio 2023; nonché del decreto del Capo della Polizia, Direttore generale della pubblica sicurezza 23 febbraio 2024, con cui è stato ampliato il numero dei posti messi a concorso da 1.650 a 2.650 unità;
per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati il 1 luglio 2024:
- del decreto del 10 maggio 2024, con cui è stata approvata la graduatoria finale e l’elenco dei vincitori di concorso, pubblicato, con valore di notifica, sul portale unico del reclutamento, disponibile all’indirizzo www.inpa.gov.it, nonché sul sito istituzionale della Polizia di Stato, all’indirizzo www.poliziadistato.it, per l’assunzione di 1.650 allievi agenti della Polizia di Stato, successivamente ampliato a 2.650 unità, indetto con decreto del Capo della Polizia, Direttore generale della pubblica sicurezza del 7 luglio 2023 e pubblicato al seguente indirizzo:
https://www.poliziadistato.it/articolo/13964abd671af687654820692;


Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno-Dipartimento della pubblica sicurezza;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 marzo 2025 il dott. Dario Aragno e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


LA VICENDA.
1. Con decreto del Capo della Polizia del 7 luglio 2023, l’amministrazione della pubblica sicurezza ha indetto un concorso pubblico, per esame, a 1.650 posti per allievo agente della Polizia di Stato, aperto ai cittadini italiani, successivamente rideterminati, con decreto del 23 febbraio 2024, in 2.650 unità.
La sig.ra -OMISSIS- ha partecipato alla procedura selettiva, ma, dopo aver superato la prova scritta ed essere stata convocata per l’accertamento dei requisiti psico-fisici di cui all’art. 12 del bando, è stata esclusa, in data 1° marzo 2024, dalla commissione medica per la presenza di un “Tatuaggio in zona non coperta da uniforme (gamba sinistra)”, ai sensi del combinato disposto dell’art. 3, co. 2, e della tabella 1, punto 2, lett. b), del decreto del Ministero dell’Interno del 30 giugno 2003, n. 198.
L’organo collegiale dell’amministrazione ha, infatti, accertato che, al momento della visita, la ricorrente aveva un tatuaggio a forma di fiore sulla parte bassa esterna della gamba sinistra, visibile in caso di utilizzo della «divisa ordinaria», che, per la donna, prevede l’uso della gonna e delle scarpe décolleté, escludendola dal concorso in applicazione della regola – estrapolata dall’intreccio di norme primarie e secondarie e di disposizioni amministrative di cui si dirà nel prosieguo – che così dispone nei confronti del candidato al quale sia riscontrato un tatuaggio “visibile” con una (qualsiasi) delle uniformi in uso alla Polizia di Stato.
Il criterio escludente della “visibilità” del tatuaggio con le uniformi in uso impatta, quindi, in maniera diversa sulla sorte del candidato a seconda del sesso, perché l’integrale copertura delle gambe e della parte superiore del piede, assicurata agli uomini dall’uso del pantalone e di calzature ordinarie (e, quindi, avvolgenti) in qualsiasi tipologia di servizio, consente l’ammissione di candidati di sesso maschile anche nei casi in cui abbiano tatuaggi in tali parti del corpo, mentre l’esposizione di tali regioni anatomiche nella donna, che si verifica allorché sia chiamata ad indossare gonna e scarpe décolleté, diventa per lei, nelle medesime circostanze, motivo di non idoneità al servizio in Polizia.
Il parametro di giudizio ai fini del reclutamento nella Polizia di Stato in caso di presenza di tatuaggi, in definitiva, varia in base al sesso del candidato.
IL CONTENZIOSO E LA POSIZIONE DELLE PARTI.
2. Avverso il provvedimento di esclusione e gli atti, anche regolamentari, presupposti la sig.ra -OMISSIS- ha proposto ricorso dinanzi a questo Tribunale, chiedendone l’annullamento, previa adozione di ogni più opportuna misura cautelare, anche atipica, ai fini della sua riammissione alle prove successive, sulla base di tre motivi in diritto
2.1. Con il primo motivo la ricorrente contesta, innanzitutto, l’automaticità del provvedimento espulsivo previsto dalla prima parte della norma, condizionato al mero riscontro di un tatuaggio e adottato senza né valutare la sua «rilevanza» né verificare se sia deturpante o espressione di personalità deviata. Tale impostazione sarebbe «frutto di una prospettazione limitativa della libertà d’espressione dell’individuo», retrograda e anacronistica, in quanto non in linea con i mutamenti culturali e dei costumi intervenuti negli ultimi trent’anni.
In secondo luogo la sig.ra -OMISSIS- evidenzia il difetto di motivazione nel quale sarebbe incorsa l’amministrazione allorché non ha dato atto del processo di rimozione in corso, così non operando i necessari distinguo, di cui pure la giurisprudenza amministrativa predica la doverosità.
Più in generale la ricorrente denuncia che l’amministrazione non si sarebbe adeguatamente soffermata sulla «visibilità» del tatuaggio, alla luce del fatto che «[l]'uso della gonna e le scarpe decolleté nel Corpo di Polizia sono assai circoscritti, quasi desueto; ed è altresì rimesso alla discrezionalità dei dirigenti. Non si conoscono ipotesi in cui ne sia stato imposto l’uso (ed essendo, semmai, contemplati ordini nell'opposto senso del divieto dell'utilizzo dell'indumento medesimo); essendo oltre tutto fatto notorio, nell'ambito del Corpo di Polizia (e, peraltro, percepito anche da coloro che abitualmente hanno contatto con il suddetto personale che opera in divisa) che l'utilizzo della gonna è caduto in desuetudine proprio in quanto le condizioni di espletamento del servizio, da parte del personale femminile, inducono, per ben evidenti ragioni di praticità, l'uso del pantalone».
2.2. Con il secondo motivo la ricorrente solleva il problema dell’evidente disparità di genere perpetrata mediante l’inflessibile applicazione della disposizione in parola, che privilegerebbe irragionevolmente i candidati di sesso maschile, per i quali l’utilizzo esclusivo del pantalone quale componente dell’uniforme garantirebbe la copertura di tatuaggi che per la donna diventano visibili in caso di utilizzo della gonna, senza che tale distinzione sia giustificata da alcuna «particolare esigenza operativa o funzionale al servizio che occorre svolgere» e nonostante il contestato indumento venga «utilizzat[o solo] nel giorno del giuramento e a volte in particolari manifestazioni estremamente formali, rare ed episodiche» quale retaggio di un modello culturale intriso di stereotipi e legato ad un «immaginario formale», in violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
D’altra parte, si sarebbe registrata, nella prassi della stessa amministrazione, una palpabile evoluzione quanto alla disciplina dei capi di vestiario, a dimostrazione di una crescente apertura e tolleranza verso l’utilizzo da parte delle donne del solo pantalone, in quanto, se nel decreto del Ministero dell’Interno del 19 febbraio 1992 e nelle circolari emanate fino al 2005 non era contemplata alcuna deroga all’utilizzo della gonna, già nel decreto del 31 dicembre 2015, in materia di «divise degli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato e relativi accessori», è stata ammessa la possibilità che «i dirigenti degli uffici» potessero autorizzare le donne all’utilizzo del pantalone, giungendosi, poi, con il decreto ministeriale del 10 luglio 2019, a riconoscere definitivamente il pantalone come parte integrante dell’uniforme ordinaria anche per la donna.
La ricorrente chiede, di conseguenza, una lettura «costituzionalmente orientata» della norma regolamentare, conforme al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, inteso nell’accezione di divieto di trattamenti differenziati – in questo caso, tra uomini e donne – non supportati da ragioni obiettive, che, ai fini dell’accesso ai pubblici impieghi, troverebbe esplicita consacrazione nell’art. 51 della Costituzione.
La possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata sarebbe avallata, nel caso specifico, dalla Corte di Cassazione, che, nell’ordinanza del 27 marzo 2023, n. 8676, pur pronunciandosi per l’inammissibilità del ricorso proposto avverso la sentenza del Consiglio di Stato del 27 aprile 2022, n. 3258, ha richiamato i giudici ad «evitare, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere in Polizia di Stato, tenuto conto della diversa uniforme femminile che, in alcuni casi, non copre in modo identico ai pantaloni».
Per l’ipotesi in cui il giudice dovesse ritenere non percorribile l’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme di rango sia primario che secondario, la sig.ra -OMISSIS- chiede che venga sollecitata la Corte costituzionale a pronunciarsi sulla conformità del quadro normativo sopra delineato agli artt. 3, 21 e 51 della Costituzione, nonché all’art. 10 della C.E.D.U., considerata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione.
2.3. Con il terzo motivo la sig.ra -OMISSIS- lamenta che lo scarso livello di approfondimento dei profili già evidenziati ai fini dell’articolazione delle precedenti censure, rinvenibile nel provvedimento impugnato, ridonderebbe altresì nella violazione dell’obbligo di motivazione previsto dall’art. 3 della l. 7 agosto 1990, n. 241.
3. Il Ministero dell’Interno-Dipartimento della pubblica sicurezza si è costituito in giudizio, affidando le proprie difese alla memoria depositata prima della discussione in camera di consiglio della domanda cautelare.
3.1. Con tale atto l’amministrazione intimata eccepisce, preliminarmente, l’inammissibilità delle censure sviluppate dalla parte ricorrente, nella parte in cui tendono a promuovere l’accertamento di un requisito fisico fuori dalla sede concorsuale – in assenza di indizi di abnormità o macroscopica irragionevolezza del giudizio espresso dalla commissione nell’esercizio della discrezionalità tecnica alla stessa intestata – in violazione del principio della par condicio e del tempus regit actum.
3.2. Nel merito, la parte resistente richiama gli approdi sui quali si è assestata la giurisprudenza amministrativa di seconda istanza, propensa a convalidare l’esclusione dei candidati nei quali sia stata rilevata la presenza di tatuaggi «con qualsiasi uniforme in uso» (richiamata Cons. Stato, II, 4 dicembre 2023, n. 10443, e i precedenti ivi citati), riportandosi, per il resto, al contenuto degli atti amministrativi contestualmente depositati (tra i quali la direttiva per l’accertamento dei requisiti psico-fisici nei concorsi nella Polizia di Stato e quella che regolamenta il vestiario in uso).
GLI SVILUPPI PROCESSUALI.
4. All’esito della camera di consiglio del 4 giugno 2024, questo Tribunale, con ordinanza del -OMISSIS-, n. -OMISSIS-, ha accolto la domanda cautelare e ammesso la sig.ra -OMISSIS- alle successive fasi dell’iter concorsuale, ritenendo che:
- l’amministrazione non avesse allegato «alcuna ragione che giustifichi, sotto il profilo del principio di ragionevolezza, il diverso trattamento riservato alle donne rispetto agli uomini in fase di selezione e che si ponga in bilanciamento con la compressione delle libertà costituzionali»;
- fosse «irragionevole la decisione dell’amministrazione di utilizzare, quale parametro per la verifica della causa di inidoneità, la “divisa ordinaria donna” nella versione che prevede l’uso della gonna e della scarpa tipo “décolleté”»;
- l’esclusione integrasse una discriminazione nel momento in cui «comporta che in presenza della medesima situazione (sussistenza di un tatuaggio nel polpaccio) si giunga a diverse conclusioni a seconda che il candidato sia di sesso maschile o femminile», in contrasto con la direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego;
- la diversa interpretazione sostenuta dal giudice d’appello non fosse condivisibile nella parte in cui richiamava, a sostegno della legittimità delle esclusioni dei candidati tatuati, le esigenze di omogeneità sottese all’utilizzo dell’uniforme, «appa[rendo le stesse] adeguatamente tutelate nello stabilire, quale parametro per la verifica della causa di inidoneità, una divisa recante lo stesso capo di vestiario (i pantaloni e lo stivaletto) per gli uomini e per le donne, che ancor più risponderebbe alla sentita esigenza di omogeneità»;
- il provvedimento riposasse su una fonte di rango secondario, quella sulla disciplina delle divise, alla quale rinvia l’art. 3, co. 7-quinquies, del d.l. 95/2017, in quanto tale senz’altro disapplicabile dal giudice amministrativo.
5. La sig.ra -OMISSIS- ha, poi, integrato il ricorso originario proponendo motivi aggiunti, con nuova istanza cautelare, avverso la graduatoria finale del concorso approvata con decreto direttoriale del 10 maggio 2024, di cui denuncia l’illegittimità derivata dagli atti già impugnati con il ricorso originario.
6. Nelle more della celebrazione della camera di consiglio è sopravvenuta, tuttavia, l’ordinanza del Consiglio di Stato del -OMISSIS-, n. -OMISSIS-, che, adito con appello cautelare dell’amministrazione avverso l’ordinanza n. -OMISSIS-/2024 di questo T.a.r., ha riformato la decisione di prime cure, ribadendo, in conformità all’orientamento più volte espresso (da ultimo con l’ordinanza dell’8 novembre 2023, n. 4475), che «l'appartenente alla Polizia di Stato…deve garantire l'idoneità psico-fisica in relazione a tutte le varie situazioni in cui possa essere chiamato ad intervenire».
7. Vista la decisione del giudice d’appello, questo giudice, alla camera di consiglio del 5 settembre 2024, ritenendo che la questione dovesse essere approfondita nella sede di merito, ha rinviato, con ordinanza del -OMISSIS-, n. -OMISSIS-, la discussione all’udienza pubblica del 4 marzo 2025, ai sensi dell’art. 55, co. 10, c.p.a.
8. All’udienza pubblica del 4 marzo 2025, la causa è stata trattenuta in decisione.
LA DECISIONE DI RINVIO PREGIUDIZIALE AI SENSI DELL’ART. 267 DEL TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA.
9. Questo Collegio ritiene che sussistano i presupposti per una domanda di pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al fine di verificare l’indirizzo interpretativo del massimo organo giurisdizionale dell’Unione europea sulle norme e sui principi del diritto unionale con i quali interferisce l’applicazione delle norme interne che disciplinano la controversia in esame, di decidere, quindi, sulla compatibilità di queste ultime con il primo e di valutarne, in definitiva, l’eventuale disapplicazione ovvero l’annullamento, in quanto, come si dirà, la norma sulla quale è fondata l’esclusione della sig.ra -OMISSIS- nasce dall’integrazione della fonte di rango primario da parte di atti regolamentari ed amministrativi, sui quali il giudice amministrativo può intervenire con pronunce di tipo demolitorio, nel rispetto del tenore letterale della prima.
Poiché, ad avviso di questo giudice, azioni correttive sono, pertanto, possibili verificando – tramite gli ordinari strumenti del sindacato giurisdizionale (tra i quali la domanda di pronuncia pregiudiziale del giudice europeo) – la percorribilità di soluzioni interpretative conformi al diritto positivo contenuto nella legge, la proposizione dell’incidente di costituzionalità sul d.lgs. 95/2017, evocata dalla ricorrente, non appare, allo stato, necessaria.
IL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA.
10. L’indagine sui limiti entro i quali è possibile differenziare il regime di accesso ai ruoli di una pubblica amministrazione a seconda del sesso dei candidati incrocia diversi profili del rapporto tra Stato e individuo attratti alla competenza dell’Unione europea e ricadenti, pertanto, nell’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (C.D.F.U.E.), ai sensi dell’art. 51, e, segnatamente, dell’art. 21, secondo cui «[è] vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale», e dell’art. 23, secondo cui «[l]a parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione».
11. Il principio della parità tra uomo e donna è, infatti, assunto tra gli obiettivi dell’Unione europea dagli artt. 2 e 3, co. 3, del Trattato sull’Unione europea (T.U.E.), a norma dei quali, rispettivamente, «[l]'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini» e «[l]'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore».
Indicazioni più specifiche in tal senso sono poi contenute nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (T.F.U.E.) e, in particolare, negli articoli:
- 8, secondo cui «[n]elle sue azioni l'Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne»;
- 153, co. 1, in forza del quale «[p]er conseguire gli obiettivi previsti all'articolo 151 [cioè quelli di politica sociale nel mercato del lavoro], l'Unione sostiene e completa l'azione degli Stati membri nei seguenti settori:…i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro»;
- 157, co. 3, ai sensi del quale le Istituzioni dell’Unione europea promuovono «misure che assicurino l'applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore».
Tali previsioni si inseriscono all’interno di un quadro che, più in generale, individua nel miglioramento delle condizioni di lavoro una delle finalità dell’azione dell’Unione europea (vedasi anche gli artt. 145 e 156 del T.F.U.E.).
12. Sul piano del diritto derivato vige, innanzitutto, la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 luglio 2006 n. 2006/54/CE, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, il cui scopo è «assicurare l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego» (art. 1), anche intervenendo nella fase dell’«accesso al lavoro» (lett. a).
Appaiono in questa sede rilevanti soprattutto:
- il considerando 19, secondo cui «[a]i fini dell'applicazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, è essenziale garantire la parità di accesso al lavoro e alla relativa formazione professionale. Pertanto, le eccezioni a tale principio dovrebbero essere limitate alle attività professionali che necessitano l'assunzione di una persona di un determinato sesso data la loro natura o visto il contesto in cui sono svolte, purché l'obiettivo ricercato sia legittimo e compatibile con il principio di proporzionalità»;
- l’art. 14, secondo cui «[è] vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione… 2. Per quanto riguarda l'accesso al lavoro, inclusa la relativa formazione, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica specifica di un sesso non costituisca discriminazione laddove, per la particolare natura delle attività lavorative di cui trattasi o per il contesto in cui esse vengono espletate, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato».
Il tema della parità tra uomo e donna è, poi, quantomeno “sfiorato” dalla direttiva del Consiglio del 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE, recante un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nel:
- considerando 2, secondo cui «[i]l principio della parità di trattamento tra uomini e donne è ormai consolidato da un consistente corpus di norme comunitarie, in particolare dalla direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro»;
- considerando 3, secondo cui «[n]ell'attuazione del principio della parità di trattamento, la Comunità deve mirare, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose discriminazioni»;
- il considerando 18, secondo cui «[l]a presente direttiva non può avere l'effetto di costringere le forze armate nonché i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso ad assumere o mantenere nel posto di lavoro persone che non possiedano i requisiti necessari per svolgere l'insieme delle funzioni che possono essere chiamate ad esercitare, in considerazione dell'obiettivo legittimo di salvaguardare il carattere operativo di siffatti servizi».
13. Della diversità dei requisiti di accesso ad una forza di polizia a seconda del sesso dei candidati la Corte di giustizia dell’Unione europea si è occupata precipuamente nella sentenza della Prima Sezione del 19 ottobre 2017, nella causa Kalliri, C 409/16, allorché è stata investita della questione di compatibilità con il diritto dell’Unione europea delle disposizioni di diritto interno della Grecia che prevedevano una statura minima di m.1,70, per i candidati di entrambi i sessi, ai fini dell’accesso alle scuole per ufficiali e agenti di polizia dell’Accademia di polizia, seppur con riferimento alla disciplina contenuta nella previgente direttiva del Consiglio del 9 febbraio 1976, n. 76/207/CEE.
In tale occasione la Corte, concordando sul fatto «che sono molte più le donne degli uomini che misurano meno di m. 1,70, sicché, in applicazione di questa normativa, le donne sarebbero nettamente svantaggiate rispetto agli uomini per quanto riguarda l’ammissione al concorso per l’arruolamento alle scuole per agenti e per ufficiali della polizia greca», ha dubitato, innanzitutto, dell’indispensabilità dei requisiti di prestanza fisica ai fini dello svolgimento di alcuni servizi (pur rientranti nei compiti degli operatori di polizia), quali «l’assistenza ai cittadini o la regolazione del traffico stradale», e, in secondo luogo, dell’assunto «che una siffatta idoneità sia necessariamente connessa al possesso di una statura minima e che le persone di statura inferiore ne siano naturalmente mancanti», riconoscendo l’esistenza di una «discriminazione indiretta», nei termini precisati nelle sentenze del 2 ottobre 1997, Kording, C 100/95, e del 20 giugno 2013, Riežniece, C 7/12, punto 39, concludendo nel senso che «l’obiettivo perseguito dalla normativa oggetto del procedimento principale potrebbe essere conseguito con misure meno svantaggiose per le donne, quali una preselezione dei candidati al concorso per l’arruolamento alla scuola per agenti e per ufficiali della polizia fondata su prove specifiche che consentano di verificare le loro capacità fisiche» e affermando che «le disposizioni della direttiva 76/207 vanno interpretate nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro, come quella oggetto del procedimento principale, che subordina l’ammissione dei candidati al concorso per l’arruolamento alla scuola di polizia di detto Stato membro, indipendentemente dal sesso di appartenenza, a un requisito di statura minima di m. 1,70, ove tale normativa svantaggi un numero molto più elevato di persone di sesso femminile rispetto alle persone di sesso maschile e non risulti idonea e necessaria per conseguire il legittimo obiettivo che essa persegue, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare».
Nella richiamata sentenza del 2 ottobre 1997, Kording, C-100-95, la C.G.U.E. ha ricordato che «[s]econdo una giurisprudenza consolidata, vi è discriminazione indiretta quando l'applicazione di un provvedimento nazionale, benché formulato in modo neutro, di fatto sfavorisca un numero molto più alto di donne che di uomini (v. in tal senso, sentenze 14 dicembre 1995, causa C-444/93, Megner e Scheffel, Racc. pag. I-4741, punto 24, e 24 febbraio 1994, causa C-343/92, Roks e a., Racc. pag. I-571, punto 33)», rilevando che la possibilità di “aggravamento” dei requisiti per l’accesso ad una determinata qualifica nei confronti di una particolare categoria di candidati (quelli a tempo parziale) – nel caso di specie costituito dalla diversa durata dell'anzianità lavorativa necessaria ai fini dell'esonero dall'esame di accesso alla professione di consulente tributario – è legittima solo se «giustificata da criteri obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso».
A proposito dei reclutamenti nelle forze di polizia, in una fattispecie nella quale alle donne era stato precluso l’accesso al ruolo del personale ausiliario di polizia nell’Irlanda del Nord, la Corte, nella sentenza del 15 maggio 1989, Johnston, causa C-222/84, ha evidenziato:
- la necessità di «accertare se, in ragione delle specifiche condizioni d’esercizio dell'attività descritta nel provvedimento di rinvio, il sesso costituisca un requisito determinante per detta attività» (punto 34);
- che ogni deroga al principio della parità di trattamento – sia nel caso in cui sia giustificata dalle peculiarità dell’attività esercitata (ex art. 2, n. 2, della direttiva 76/207/CEE) sia in quello in cui nasca da un’esigenza di protezione della donna e, in particolare, di tutela della gravidanza e della maternità (ex art. 2, n. 3, della direttiva 76/207/CEE) – «dev'essere interpretata in senso restrittivo», perché contempla una limitazione di un diritto individuale sancito dalla direttiva (punti 36 e 44);
- «che, nel determinare la portata di qualsiasi limitazione di un diritto individuale, come quello alla parità di trattamento fra uomini e donne stabilito dalla direttiva, occorre rispettare il principio di proporzionalità, che fa parte dei principi giuridici generali sui quali è basato l'ordinamento giuridico comunitario. Il suddetto principio esige che siffatte limitazioni non eccedano quanto è adeguato e necessario per raggiungere lo scopo perseguito e prescrive di conciliare, per quanto possibile, il principio della parità di trattamento con le esigenze della pubblica sicurezza che sono determinanti per le condizioni di esercizio dell'attività di cui trattasi» (punto 38).
L’esigenza che i requisiti di partecipazione ad un concorso in una forza di polizia si mantengano strettamente aderenti alle effettive e – soprattutto – prevalenti funzioni che i vincitori saranno chiamati a svolgere è stata ribadita, sia pure in sede di interpretazione della direttiva 2000/78/CE a proposito dei limiti d’età, nella sentenza della Settima Sezione del 17 novembre 2022, V.T., C-304/2021, nella quale la Corte, dopo aver ricordato che spetta «al giudice del rinvio, che è il solo competente a interpretare la normativa nazionale applicabile, determinare quali siano le funzioni effettivamente esercitate dai commissari della Polizia di Stato e, alla luce di queste ultime, stabilire se il possesso di capacità fisiche particolari sia un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78», ha statuito che «[a] tal riguardo, detto giudice deve tener conto delle funzioni effettivamente esercitate in maniera abituale dai commissari nello svolgimento delle loro mansioni ordinarie», «dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 4, paragrafo 1, e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, letti alla luce dell’articolo 21 della Carta, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che prevede la fissazione di un limite massimo di età a 30 anni per la partecipazione a un concorso diretto ad assumere commissari di polizia, allorché le funzioni effettivamente esercitate da tali commissari di polizia non richiedono capacità fisiche particolari o, qualora siffatte capacità fisiche siano richieste, se risulta che una tale normativa, pur perseguendo una finalità legittima, impone un requisito sproporzionato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».
IL DIRITTO INTERNO. IL QUADRO NORMATIVO.
14. La materia dell’accesso ai pubblici impieghi trova alcune affermazioni di principio nella Costituzione italiana e, in particolare, nell’art. 97, co. 3, secondo cui «[a]gli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge» e, quanto alla parità di trattamento tra uomo e donna, nell’art. 51, co. 1, della Costituzione, secondo cui «[t]utti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», che costituiscono corollari del principio di uguaglianza enunciato dall’art. 3, secondo cui «[t]utti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali [co. 1]. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese [co. 2]».
La direttiva 2006/54/CE è stata recepita dal legislatore nazionale con il d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, con il quale sono state per lo più modificate le disposizioni del previgente codice delle pari opportunità adottato con d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, e del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, adottato con d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Il divieto di discriminazione in ragione del sesso nell’accesso ai pubblici impieghi è attualmente contenuto nell’art. 27 del citato d.lgs. 198/2006, il cui co. 5 stabilisce che «[n]ei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo di terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta dev'essere accompagnata dalle parole «dell'uno o dell'altro sesso», fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione».
15. Le modalità di reclutamento e i requisiti di partecipazione sono poi concretamente stabiliti, per ogni amministrazione, da altre fonti primarie e secondarie.
Per la nomina ad agente della Polizia di Stato la norma di riferimento è costituita dall’art. 6 del d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, che rimanda alla normativa di rango secondario sia per l’individuazione dei requisiti di «efficienza e idoneità fisica, psichica e attitudinale al servizio di polizia» (co. 1, lett. c) sia per le «le modalità di svolgimento del concorso e delle altre procedure di reclutamento, la composizione della commissione esaminatrice e le modalità di formazione della graduatoria finale» (co. 7).
Sulla specifica materia dei tatuaggi il legislatore è poi intervenuto, in occasione di una complessiva revisione dell’ordinamento delle forze di polizia, con il d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, prevedendo, all’art. 3, co. 7-quinquies (aggiunto dall'art. 37, co. 1, lettera d), del d.lgs. 27 dicembre 2019, n. 172), che «[c]ostituiscono causa di esclusione dai concorsi pubblici per l'accesso ai ruoli e alle carriere della Polizia di Stato le alterazioni volontarie dell'aspetto esteriore dei candidati, quali tatuaggi e altre alterazioni permanenti dell'aspetto fisico non conseguenti a interventi di natura comunque sanitaria, se visibili, in tutto o in parte, con l'uniforme indossata o se, avuto riguardo alla loro sede, estensione, natura o contenuto, risultano deturpanti o indice di alterazioni psicologiche, ovvero comunque non conformi al decoro della funzione degli appartenenti alla Polizia di Stato», sicché la concreta operatività della causa di esclusione costituita dalla presenza di un mero tatuaggio ‒ che non sia, cioè, di per sé deturpante o rappresentativo di una personalità deviata, assumendo in quest’ultimo caso senz’altro effetto preclusivo all’accesso nei ruoli della Polizia di Stato ‒ finisce con il dipendere, come si è già accennato nell’incipit della presente ordinanza, dalla sua visibilità con l’uniforme in uso, cioè dagli atti amministrativi con i quali l’amministrazione disciplina i capi di vestiario del proprio personale.
Tale “delega” è confermata dal d.m. 198/2003, che, al punto 2, lett. b), dell’allegato 1, annovera tra le cause di non idoneità per l'ammissione ai concorsi pubblici per l'accesso ai ruoli del personale della Polizia di Stato i «tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall'uniforme o quando, per la loro sede o natura, siano deturpanti o per il loro contenuto siano indice di personalità abnorme».
16. Le direttive sulle uniformi sono contenute nel decreto del Capo della Polizia del 31 dicembre 2015 e nel decreto della medesima Autorità del 10 luglio 2019, recante revisione e aggiornamento delle tabelle allegate al primo. Il decreto del 31 dicembre 2015 riporta, in allegato, anche alcune “informazioni esplicative», contenenti indicazioni sull’uso delle uniformi. In particolare, per quanto più rileva nella presente sede, il citato allegato prevede che «[l]a divisa ordinaria maschile e femminile…è…utilizzata solo in occasioni di alto profilo istituzionale» (pag. 1) e che «[l]a divisa ordinaria femminile prevede l’uso della gonna e solo su disposizione dei dirigenti degli uffici, potranno essere indossati i pantaloni» (pag. 2). La divisa ordinaria così foggiata è ‒ secondo quanto si legge nel prosieguo dell’allegato (pagg. 8 - 9) ‒ la divisa indossata nelle cerimonie, per i servizi di parata e di onore e per i servizi di rappresentanza.
Nelle schede (edizione 2019) che raffigurano le divise per i vari ruoli e nei vari contesti istituzionali, la divisa ordinaria per la donna contempla sia la gonna che il pantalone.
Dal quadro regolatorio definito in via amministrativa dall’amministrazione della pubblica sicurezza emerge, quindi, che:
- per la donna sia la gonna che il pantalone fanno parte della divisa ordinaria;
- la divisa ordinaria viene indossata nelle cerimonie e negli eventi di rappresentanza;
- le donne possono, in tali occasioni, essere autorizzate dai dirigenti ad utilizzare il pantalone senza che siano state predeterminate le condizioni della deroga.
IL DIRITTO INTERNO. LA GIURISPRUDENZA DEL GIUDICE D’APPELLO.
17. La legittimità delle esclusioni disposte dall’amministrazione della pubblica sicurezza all’esito dell’accertamento di tatuaggi fatti su parti del corpo visibili solo con la gonna e le scarpe décolleté è stata già esaminata dalla giurisprudenza amministrativa nazionale.
Tuttavia, a fronte di diverse aperture da parte dei giudici di primo grado all’adozione di un criterio di valutazione della visibilità del tatuaggio che non penalizzasse le donne per il solo fatto di avere parti del corpo tatuate esposte con l’uso della gonna e le scarpe décolleté (T.a.r. Roma, I-quater, 12 febbraio 2019, n. 1835; 7 febbraio 2020, n. 1700), il Consiglio di Stato ha espresso il diverso orientamento che i tatuaggi su gambe, caviglie e polpacci (che sono, per le donne, le parti del corpo esposte in caso di utilizzo della gonna e le scarpe décolleté) possano essere legittimamente assunti a fondamento dell’esclusione delle candidate di sesso femminile dalla selezione (ancorché non visibili con l’uso delle calze), in quanto «l’appartenente alla Polizia di Stato, infatti, deve garantire l’idoneità psico-fisica in relazione a tutte le varie situazioni in cui possa essere chiamato ad intervenire» (Cons. Stato, IV, 2 marzo 2020, n. 1477, e 8 giugno 2021, n. 4386).
Laddove la ricorrente ha prospettato profili di disparità di trattamento tra uomini e donne a causa della visibilità di taluni tatuaggi solo con la gonna e non anche con il pantalone, il giudice d’appello (Cons. Stato, II, 3 novembre 2022, n. 9583) ha statuito che:
- «ove la Commissione medica affermi che un tatuaggio su una parte del corpo non coperta dalla divisa (quale, per il personale femminile, il polpaccio o la caviglia) sia ancora visibile e corrobori tale assunto mediante l’accurata descrizione della forma, delle dimensioni e del soggetto del tatuaggio stesso, non rileva che all’atto della visita non siano state fatte indossare le calze. Non ha poi alcuna importanza il fatto che la divisa comprendente le calze sia riservata ad usi occasionali: l’appartenente alla Polizia di Stato, infatti, deve garantire l’idoneità psico-fisica in relazione a tutte le varie situazioni in cui possa essere chiamato ad intervenire. Del resto, l’eventualità dell’utilizzo della gonna, come già detto al § 14, è espressamente prevista, sicché nessun contrasto con le disposizioni che la regolamentano, seppure limitandola a casi residuali, può essere ravvisato nel giudizio della Commissione, che, al contrario, proprio di tale prevista evenienza ha doverosamente tenuto conto»;
- «[l]a diversità delle uniformi in ragione del sesso e del grado, declinata nel decreto del Ministro dell’interno del 4 ottobre 2005, non implica affatto ex se una disparità di trattamento, neppure nella parte in cui si riverbera sull’accertamento dei requisiti di idoneità all’accesso. Essa risponde piuttosto alle scelte gestionali delle singole amministrazioni avuto riguardo alla specificità dei servizi comandati e neppure necessariamente implica una posizione di svantaggio per le donne, piuttosto che il loro soggettivo gradimento. La differenza, dunque, starebbe nell’imposizione, anziché nella scelta, della medesima, ma è evidente che essa è intrinseca nell’appartenenza ad un corpo di polizia. Ben diversa è la valutazione della rispondenza di quel capo, al pari di qualsiasi altro, alle esigenze connesse all’effettuazione, indistintamente per uomini e donne, di attività connotate da alto grado di fisicità operativa. Da qui la graduale omogeneizzazione della tipologia “normale” dei capi di vestiario in risposta a ovvie ragioni di praticità e funzionalità. Senza che ciò renda di per sé illegittimo, e men che meno discriminante, il mantenimento dell’uso della gonna - al pari, del resto, a scarpe di foggia femminile, con tacco, considerate di maggiore eleganza e gradevolezza estetica - laddove ridette esigenze di operatività non sussistano, come accade nelle cerimonie o in incontri istituzionali»;
- «[r]idetta asserita discriminazione non è ipotizzabile neanche in relazione all’impatto che la mantenuta previsione della gonna tra i capi di vestiario astrattamente utilizzabili finisce per avere sulle verifiche di idoneità. La scelta di accedere ad un Corpo di Polizia implica non irragionevolmente l’accettazione delle regole sottese a quell’appartenenza, preventivamente conosciute e quindi paritarie, tra le quali anche l’esigenza di non ostentare tatuaggi con l’uniforme, secondo le indicazioni di foggia fornite -esse pure preventivamente – dall’Amministrazione della quale si aspira a fare parte. L’uniforme infatti, in quanto parte integrante della dotazione strumentale del poliziotto, nel rispondere a quelle esigenze di omogeneità che la stessa etimologia del termine evoca, impone di fornire un’immagine, oltre che decorosa, simbolicamente identica; il che contrasta con la visibilità di figure diversificate incise sulla cute esposta, che in quanto “stabili” (salvo, appunto, il processo di rimozione) non possono essere temporaneamente accantonate al pari di accessori non previsti, o comunque poco compatibili, con la divisa, quali vistosi monili e simili, e dunque minano in maniera tendenzialmente stabile la richiesta “uniformità”, appunto».
Tale principio è espresso anche dalla giurisprudenza cautelare del Consiglio di Stato, che, nell’ord. -OMISSIS-/2024, con la quale ha riformato la decisione cautelare di accoglimento resa da questo Tribunale nel presente contenzioso, richiama proprio il precedente da ultimo citato.
IL DIRITTO INTERNO. CONCLUSIONI.
18. L’art. 3, co. 7-quinquies, del d.lgs. 95/2017 fa dipendere, quindi, l’esclusione dal concorso nella Polizia di Stato dalla constatazione di «tatuaggi e altre alterazioni permanenti dell'aspetto fisico non conseguenti a interventi di natura comunque sanitaria, se visibili, in tutto o in parte, con l'uniforme indossata…», attribuendo di fatto alla discrezionalità dell’amministrazione della pubblica sicurezza la disciplina delle uniformi e, quindi, dei presupposti di operatività della causa di non idoneità.
Le norme interne, con le quali, poi, l’amministrazione ha individuato le tipologie di uniforme e i casi nei quali ciascuna di esse è indossata, prevedono sia divise destinate allo svolgimento degli ordinari servizi operativi, ispirate da esigenze, oltre che di uniformità, anche di comodità e praticità (al fine di agevolare l’esecuzione dei movimenti corporei e delle azioni richiesta ad un operatore di polizia), sia divise da indossare in occasione di cerimonie ed eventi di rappresentanza, che tengono conto di parametri per lo più estetici, idonei ad assecondare finalità di tutela dell’immagine della forza di polizia.
Negli schieramenti nei quali sono inquadrate le donne in gonna e scarpe décolleté – capi che compongono una delle due “varianti” della divisa ordinaria (esistendo anche una variante con il “pantalone”) – le stesse non possono esporre tatuaggi sulle gambe, sulle caviglie e sul collo dei piedi, in quanto questi, costituendo indizio di una libertà di costumi incompatibile con il rigore richiesto ad un operatore di polizia, determinerebbero un’esiziale “rottura” degli schemi notoriamente connaturati a circostanze formali.
Ancorché, tuttavia, esista la possibilità, esplicitamente prevista dalle medesime norme interne, che le donne vengano esonerate dall’uso della gonna anche in tali circostanze formali (secondo valutazioni rimesse alla dirigenza), l’amministrazione ritiene – e il giudice d’appello conferma la legittimità dell’impostazione dalla stessa seguita – che la presenza di un tatuaggio, visibile in caso di utilizzo di gonna e scarpe décolleté, osti all’inserimento della candidata nei ruoli dell’amministrazione, a nulla rilevando che quel tatuaggio non sia visibile con la divisa indossata nei servizi ordinari (e di gran lunga prevalenti).
I candidati di sesso maschile, invece, non patiscono siffatte limitazioni, perché tutte le divise indicate dalle norme interne prevedono l’utilizzo di pantaloni e scarpe coprenti, ed hanno, quindi, maggiori chance rispetto alle donne di superare la selezione anche in caso di tatuaggi su gambe e piedi.
I MOTIVI DELLA DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE E IL QUESITO.
19. Dall’esame coordinato delle direttive 76/207/CEE, 2006/54/CE e 2000/78/CE e della giurisprudenza europea sul principio di non discriminazione nell’accesso al lavoro questo Collegio ricava che:
- l’applicazione del medesimo trattamento a uomini e donne nell’accesso al lavoro è la regola; le deroghe, di stretta interpretazione (sentenza Johnston, causa C-222/84), devono avere un fondamento oggettivo e una finalità legittima e essere attuate con il minor sacrificio possibile degli interessi della donna (art. 2, co. 2, lett. b), della direttiva 2006/54/CE);
- in materia di reclutamento nelle forze di polizia, deroghe al divieto di discriminazione sono possibili solo se hanno la finalità di garantire il possesso dei requisiti necessari allo svolgimento delle funzioni, con la precisazione che obiettivo “legittimo” può essere solo la tutela del «carattere operativo di siffatti servizi», cioè del servizio “operativo”, da intendersi come quello che implica forza e vigore fisico (considerando 18 della direttiva 2000/78/CE);
- per stabilire se un requisito idoneo a generare un effetto discriminatorio (come l’età) persegue una finalità legittima occorre aver riguardo all’impiego “abituale” degli operatori di polizia, cioè all’impiego “prevalente” (sentenza V.T., C-304/2021).
20. Sulla scorta di siffatte coordinate ermeneutiche, questo Collegio nutre seri dubbi sulla compatibilità con il diritto eurounitario – e, in particolare, con i principi di non discriminazione e di proporzionalità nella materia dell’accesso al lavoro – dell’esclusione di una candidata dai concorsi nelle forze di polizia motivata dalla presenza di un tatuaggio sulla gamba e dalla sua visibilità in caso di utilizzo della “gonna” e delle scarpe décolleté, quali componenti non esclusive dell’uniforme ordinaria – essendo previsti per le donne dalle stesse norme interne anche il pantalone e le scarpe ordinarie e riconosciuta un’ampia discrezionalità (non subordinata dalla circolare del 31 dicembre 2015 ad alcuna condizione) ai dirigenti di autorizzarne l’uso – per le cerimonie e i servizi di rappresentanza, cioè servizi che hanno innegabilmente rilievo sporadico ed occasionale e che, in ogni caso, non coincidono con gli abituali servizi operativi delle forze di polizia.
La disparità di trattamento tra i candidati di sesso maschile, che possono essere assunti anche se hanno tatuaggi sulle gambe e sui piedi (perché sempre coperti da pantaloni e scarpe), e candidate di sesso femminile, che non possono essere assunte se hanno tatuaggi sulle gambe e sui piedi (solo perché occasionalmente potrebbero essere chiamate ad indossare la gonna e le scarpe décolleté e non autorizzate all’uso del pantalone), non appare, ad avviso di questo giudice, sorretta da alcuna finalità oggettiva e legittima – che postulerebbe la strumentalità della divisa con la quale è visibile il tatuaggio alle esigenze operative della forza di polizia – e si pone in frontale contrasto con il principio di proporzionalità.
L’eventuale compromissione dell’esigenza di uniformità negli schieramenti durante gli eventi di rappresentanza, che soddisfa un interesse pubblico secondario o, comunque, più recessivo nel confronto con gli interessi privati di quanto non lo sia la salvaguardia del carattere operativo dei servizi ordinari, può, infatti, essere efficacemente evitata esonerando le donne che abbiano tatuaggi sulle gambe dalla partecipazione alle cerimonie o, quantomeno, dall’uso della gonna e delle scarpe décolleté, senza precludere loro integralmente l’accesso ai ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza e, quindi, la loro proficua spendibilità nei ben più rilevanti servizi di carattere operativo.
21. Tutto ciò premesso, questo Tribunale formula ai sensi dell’art. 267 del T.F.U.E. il seguente quesito: «se il diritto dell’Unione europea e, in particolare, l’art. 2, co. 1, lett. b), della direttiva 2006/54/CE, gli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il principio di non discriminazione in base al sesso, i principi enunciati in sede di interpretazione della direttiva 2000/78/CE e il principio di proporzionalità ostino alla normativa nazionale contenuta nell’art. 3, co. 7-quinquies, del d.lgs. 95/2017 e nell’art. 3, co. 2, e nella tabella 1, punto 2, lett. b), del d.m. 198/2003, come applicata dall’amministrazione della pubblica sicurezza e interpretata nel diritto vivente, che consente l’esclusione di una candidata di sesso femminile dal concorso in una forza di polizia per la presenza di un tatuaggio in zona non coperta dall’uniforme, allorché lo stesso sia visibile solo in caso di utilizzo della divisa ordinaria, prevista per i servizi di rappresentanza, nella versione che contempla l’uso della gonna e delle scarpe décolleté».
STATUIZIONI FINALI.
22. Ai sensi delle “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale”, pubblicate in G.U.U.E del 9 ottobre 2024, alla Corte di giustizia dell’Unione europea deve essere trasmessa, a cura della Segreteria della Sezione, oltre a copia conforme all’originale della presente ordinanza, copia dell’intero fascicolo di causa. In particolare:
- l’invio della presente domanda di pronuncia pregiudiziale (e degli altri documenti correlati a tale domanda) andrà effettuato a mezzo dell’applicazione e-Curia;
- una copia modificabile della presente domanda di pronuncia pregiudiziale (e degli altri documenti correlati a tale domanda) andranno trasmessi al seguente indirizzo: editable-versions@curia.europa.eu.
23. In attesa della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, si rende necessario disporre, ai sensi dell’art. 79, co. 1, c.p.a., la sospensione del presente processo, riservando alla sentenza definitiva ogni pronuncia in rito, nel merito e sulle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, così dispone:
i) rimette alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le questioni pregiudiziali indicate in motivazione;
ii) ordina alla Segreteria della Sezione di trasmettere alla Corte di giustizia dell’Unione europea una copia conforme all’originale della presente ordinanza, nonché copia integrale del fascicolo di causa, nel rispetto delle modalità riportate in motivazione;
iii) sospende il processo fino alla definizione del giudizio sulla questione pregiudiziale con riserva, all’esito, di ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 marzo 2025 con l'intervento dei magistrati:
Orazio Ciliberti, Presidente
Caterina Lauro, Referendario
Dario Aragno, Referendario, Estensore
         
         
L'ESTENSORE        IL PRESIDENTE
Dario Aragno        Orazio Ciliberti
         
         
         
IL SEGRETARIO



In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

 

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