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13 luglio 2025

Consiglio di Stato 2025- stipendi dei magistrati e l’applicazione dell’art. 24 della legge n. 448/1998

 

 

Consiglio di Stato 2025- stipendi dei magistrati e l’applicazione dell’art. 24 della legge n. 448/1998

**Contesto e soggetti coinvolti**

Gli appellanti sono magistrati ordinari e la loro associazione di categoria, che agiscono congiuntamente per ottenere il riconoscimento del diritto all’adeguamento degli stipendi per il triennio 2018-2020. La loro azione si basa sugli artt. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 e 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448. In particolare, si contestava il decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) del 6 agosto 2021, che, sulla base di dati statistici dell’ISTAT, ha riconosciuto ai magistrati un aumento del 4,85% sui trattamenti economici.

**Normativa di riferimento**

L’art. 24 della legge n. 448/1998 disciplina gli adeguamenti automatici degli stipendi del personale non contrattualizzato, specificando che:

- Dal 1° gennaio 1998, stipendi, indennità e assegni di vari settori pubblici sono soggetti ad adeguamento annuale automatico, calcolato sulla variazione media dei salari registrata dall’ISTAT nell’anno precedente, per le categorie di dipendenti pubblici contrattualizzati.
- La percentuale di adeguamento è determinata entro il 30 aprile di ogni anno con decreto del Presidente del Consiglio, su proposta dei ministri competenti.
- L’ISTAT comunica la variazione percentuale entro marzo; se i dati non sono disponibili, si applica l’adeguamento sulla base dell’anno precedente, con eventuale conguaglio successivo.

**Analisi e commento**

Il cuore della questione riguarda l’applicazione di questa normativa agli stipendi dei magistrati, che sono soggetti a specifici trattamenti economici e, in alcuni casi, considerati personale non contrattualizzato ai fini dell’adeguamento automatico previsto dall’art. 24.

Il Consiglio di Stato, nel suo ruolo, analizza se il decreto del 6 agosto 2021 abbia rispettato le modalità e i criteri stabiliti dalla legge. In particolare, si verifica:

1. **L’applicazione corretta delle procedure di calcolo**: l’adeguamento del 4,85% si basa sui dati ISTAT, che devono essere comunicati entro marzo e devono rappresentare la variazione media dei salari. La corretta comunicazione e l’utilizzo di dati aggiornati sono essenziali per l’effettiva applicazione del meccanismo.

2. **La natura dell’adeguamento per magistrati**: mentre l’art. 24 si riferisce espressamente al personale non contrattualizzato, i magistrati sono soggetti a specifici trattamenti economici, spesso regolati da norme di legge e da contratti collettivi propri. La domanda è se, in assenza di un’applicazione diretta di questa normativa, possano comunque beneficiare delle stesse modalità di adeguamento automatico, o se siano esclusi per specificità del loro status.

3. **L’interpretazione delle leggi e delle norme di principio**: il Consiglio di Stato potrebbe evidenziare che le modalità di adeguamento devono essere rispettose delle norme specifiche che regolano i trattamenti dei magistrati, e valutare se il decreto impugnato abbia rispettato tali norme o meno.

4. **L’elemento statistico e di proporzionalità**: il dato del 4,85% deriva dall’analisi statistica condotta dall’ISTAT. La legittimità di tale percentuale dipende dalla corretta applicazione di questa metodologia e dalla rappresentatività dei dati.

**Conclusioni**

Il giudice amministrativo, nel commento, sottolinea che:

- La normativa prevede un meccanismo di adeguamento automatico che, se applicato correttamente, garantisce l’adeguatezza delle retribuzioni pubbliche rispetto all’inflazione e all’aumento dei salari.
- La corretta applicazione di questa normativa richiede il rispetto delle procedure temporali e dei dati statistici forniti dall’ISTAT.
- La natura specifica del rapporto di lavoro dei magistrati potrebbe richiedere interpretazioni aggiuntive o deroghe, ma in assenza di disposizioni contrarie o di norme che escludano i magistrati, si può ritenere che anche loro abbiano diritto all’adeguamento secondo le modalità stabilite dall’art. 24.
- Il decreto del 6 agosto 2021, quindi, deve essere valutato anche alla luce di queste considerazioni, e eventuali violazioni delle procedure o interpretazioni restrittive potrebbero giustificare l’accoglimento dell’impugnazione.

**In sintesi**

Il Consiglio di Stato ribadisce che il meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni previsto dalla legge n. 448/1998 si applica, in linea di principio, anche al personale come i magistrati, salvo specifiche esclusioni o normative contrattuali diverse. La corretta applicazione di questo procedimento è fondamentale per garantire il rispetto dei diritti dei magistrati e la trasparenza delle procedure di adeguamento retributivo.



Pubblicato il 09/07/2025
N. 06004/2025REG.PROV.COLL.
N. 00478/2025 REG.RIC.
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 478 del 2025, proposto dall’Associazione Nazionale Magistrati - A.N.M., in persona del legale rappresentante pro tempore, Carlo Pappalardo, ..
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia, Ministero dell’economia e delle finanze, ISTAT - Istituto Nazionale di Statistica, in persona dei rispettivi legali rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati, in Roma, via dei Portoghesi 12
nei confronti
…, non costituito in giudizio
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma (sezione prima) n. 14991/2024


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dei Ministeri della Giustizia, e dell’economia e delle finanze e dell’ISTAT - Istituto Nazionale di Statistica;
Viste le memorie e tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 maggio 2025 il consigliere Fabio Franconiero e uditi per le parti gli avvocati Giuseppe Lo Pinto e Fabio Cintioli e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO
1. Gli appellanti indicati in intestazione, magistrati ordinari in servizio, agiscono unitamente alla loro associazione di categoria, parimenti indicata, per l’accertamento del loro diritto al corretto adeguamento degli stipendi per il triennio 2018-2020, ai sensi degli artt. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura) e 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo). A questo scopo hanno impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, poi trasposto in sede giurisdizionale dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma, il decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) del 6 agosto 2021, che, sulla base delle rilevazioni di carattere statistico svolte dall’ISTAT sugli aumenti medi registratisi nel pubblico impiego nel triennio in considerazione, ha riconosciuto ai magistrati la percentuale di aumento dei loro trattamenti economici nella misura del 4,85 per cento.
2. Secondo le argomentate deduzioni esposte dai ricorrenti la percentuale così stimata dall’Istituto di statistica costituisce la risultante di un metodo di calcolo inficiato da plurime violazioni delle citate disposizioni di legge, le quali indicano con precisione i parametri vincolanti necessari per garantire l’effettiva corrispondenza della retribuzione dei magistrati alle dinamiche economiche del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Innanzitutto, i ricorrenti evidenziano che, in assenza di base normativa, il provvedimento impugnato ha arbitrariamente escluso dal calcolo gli aumenti derivanti da rinnovi contrattuali riconosciuti nel triennio e le indennità per missioni e servizi all’estero.
Inoltre, secondo i ricorrenti, il provvedimento gravato, anziché basarsi sulla “media aritmetica” degli incrementi per categoria realizzati nel triennio, come imposto dalla legge, ha applicato, del tutto erroneamente, una “media ponderata”, definita in base alla consistenza numerica di ciascuna categoria del pubblico impiego.
Infine, il provvedimento impugnato ha del pari illegittimamente escluso dal calcolo gli aumenti del personale dipendente pubblico non contrattualizzato.
Pertanto, i ricorrenti hanno domandato che, nell’ambito del calcolo per l’adeguamento triennale delle retribuzioni per il triennio 2018-2020, debbano correggersi le riscontrate illegittimità, secondo i seguenti aspetti, tutti correlati alla esatta applicazione dei vincoli normativi:
i) devono essere considerati gli incrementi di tutte le voci che compongono il trattamento dei dipendenti pubblici, comprese le componenti accessorie e variabili (comunque denominate), ancorché non ritenute di “natura strettamente retributiva”;
ii) va correttamente applicata la “media aritmetica” degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti, anziché la “media ponderata” delle indicate variazioni economiche, in ossequio al tenore letterale degli artt. 2 l. 19 febbraio 1981, n. 27, e 24 l. 23 dicembre1998, n. 448;
iii) ai fini del calcolo degli incrementi retributivi registrati nel triennio è necessario monitorare e valutare tutti i comparti dei dipendenti pubblici, sia contrattualizzati, che non contrattualizzati, senza alcuna limitazione od esclusione, così come previsto dall’art. 24, comma 4, l. 23 dicembre 1998, n. 448.
I ricorrenti hanno quindi concluso per la condanna delle Amministrazioni intimate alla rideterminazione dell’adeguamento dovuto per il triennio 2018-2020 in base ai predetti principi e al conseguente pagamento in loro favore delle somme così ricalcolate, oltre agli interessi dal dì del dovuto e fino al soddisfo.
3. All’esito dell’istruttoria svolta mediante richiesta di chiarimenti presso il medesimo Istituto nazionale di statistica (sul rilievo di profili di contraddittorietà tra il documento dell’ISTAT e le argomentazioni esposte nella memoria difensiva delle pubbliche amministrazioni resistenti), con la sentenza indicata in epigrafe, l’adito Tribunale amministrativo ha respinto il ricorso proposto in primo grado.
4. La sentenza ha basato la reiezione del ricorso sui seguenti essenziali passaggi argomentativi.
4.1. Con riguardo agli arretrati e all’indennità per missioni e servizi all’estero, la pronuncia di rigetto ha ritenuto che l’omesso computo di tali voci costituirebbe una corretta modalità di calcolo degli incrementi retributivi, statuendo rispettivamente che i primi derivano dallo «sfasamento temporale tra il rinnovo del contratto collettivo e la sua decorrenza temporale» e che il loro computo darebbe luogo ad un errore giuridico, posto che essi sono già conglobati nelle retribuzioni tabellari della contrattazione collettiva, oltre che, sul piano statistico, ad un «andamento altalenante tra i vari anni del triennio (in quanto nell’anno della corresponsione di esso le somme percepite sarebbero maggiori)»; il computo dei secondi, quali «elargizioni», invece comporterebbe un’alterazione della «media delle retribuzioni, attesa la natura meramente eventuale e non strettamente connessa con l’ordinario svolgimento della prestazione lavorativa, stricto sensu intesa».
4.2. Di seguito, l’applicazione della media ponderata degli incrementi retributivi era considerata conforme al dato normativo, che con il testuale riferimento agli «incrementi medi pro capite», richiederebbe di individuare «la media aritmetica dell’aumento conseguito da ogni singolo dipendente pubblico» e, pertanto, di attribuire ai comparti della contrattazione collettiva un peso corrispondente con il loro numero di dipendenti ad essa soggetti.
4.3. Anche l’esclusione del pubblico impiego non contrattualizzato era giudicata conforme alla legge, ed in particolare all’art. 24, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, che, nel porre a base del calcolo degli aumenti retributivi «l’indice delle retribuzioni contrattuali elaborato dall’ISTAT», ha rimesso a quest’ultimo di svolgere una «valutazione tecnico-statistica» in base alla quale l’Istituto «può benissimo non prendere in considerazione alcune categorie del pubblico impiego», purché sulla base di scelte ragionevoli. In questa direzione, l’esclusione del pubblico impiego non contrattualizzato risponderebbe all’esigenza di evitare «una duplicazione del medesimo parametro», a favore dei magistrati e dello stesso pubblico impiego in regime di diritto pubblico.
In senso convergente, dal sistema della richiamata legge 19 febbraio 1981, n. 27, si ricaverebbe l’esclusione del personale dipendente della Banca d’Italia e delle altre autorità amministrative indipendenti. Pertanto, considerato che l’art. 24, comma 4, l. 448/1998 fa salve, per quanto non derogate dal comma 1, le disposizioni dell’art. 2 l. 27/1981, apparirebbe evidente la legittimità della descritta limitazione delle categorie del pubblico impiego considerate dall’ISTAT ai fini del calcolo degli adeguamenti da riconoscere ai magistrati.
Al medesimo riguardo veniva, infine, dato atto che non era stato allegato alcun concreto pregiudizio, in termini economici, dalla mancata inclusione di alcune categorie di pubblici dipendenti nel calcolo. Neppure potevano trarsi opposte conclusioni dalla perizia prodotta da parte ricorrente la quale si sarebbe limitata a criticare la metodologia adottata in via generale dall’Istituto, senza censurare la specifica operazione statistica condotta nel caso in esame. Sotto tale profilo la censura sarebbe comunque anche inammissibile in quanto afferente al merito di una valutazione statistica aderente al parametro di legge.
5. La sentenza di primo grado, la cui motivazione è così sintetizzabile, è appellata dagli originari ricorrenti, i quali argomentano l’erroneità delle relative statuizioni e ne chiedono la riforma sulla base di tre motivi di diritto.
Gli appellanti hanno altresì riproposto l’istanza istruttoria formulata in primo grado, insistendo che venga disposta apposita consulenza tecnica d’ufficio in relazione ai quesiti proposti.
Si sono costituite le Amministrazioni intimate, domandando la reiezione dell’appello.
All’udienza del 20 maggio 2025, la causa è passata in decisione.
DIRITTO
6. Per chiarezza, prima di esaminare i motivi di appello, è opportuno descrivere la disciplina normativa che regola la materia dell’adeguamento triennale degli stipendi e delle indennità del personale di magistratura, rilevante nel caso in esame.
La regolamentazione dell’adeguamento periodico completa la disciplina del trattamento retributivo dei magistrati, caratterizzata dalla sua natura interamente pubblicistica ed unilaterale e dall’assenza di fasi contrattuali o concertative.
In tale contesto, l’impostazione del legislatore è incentrata sulla previsione di meccanismi volti a garantire l’automatismo degli adeguamenti retributivi dei magistrati, secondo criteri predeterminati e vincolanti.
Detti parametri, a loro volta, risultano finalizzati, come risulta dall’analisi sviluppata, infra, ad assicurare la massima omogeneità tra gli incrementi retributivi spettanti ai magistrati e quelli percepiti dai lavoratori pubblici nel loro complesso.
In altre parole, i criteri delineati dal legislatore non comportano l’attribuzione di vantaggi economici al personale di magistratura, ma, al tempo stesso, non possono e non devono tradursi in un trattamento deteriore rispetto all’evoluzione retributiva registrata nel lavoro pubblico.
6.1. La materia è innanzitutto disciplinata dall’art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (che, a sua volta, ha modificato gli articoli 11 e 12 della legge 2 aprile 1979, n. 97, recante “Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato”).
Secondo tale disposizione:
«Gli stipendi del personale di cui alla presente legge sono adeguati di diritto, ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti per le voci retributive calcolate dall’Istituto centrale di statistica ai fini della elaborazione degli indici delle retribuzioni contrattuali, con esclusione della indennità integrativa speciale.
Agli effetti del comma precedente sono presi in considerazione i benefici medi pro capite dei seguenti comparti del pubblico impiego: amministrazioni statali, aziende autonome dello Stato, università, regioni, province e comuni, ospedali, enti di previdenza.
La variazione percentuale è calcolata rapportando il complesso del trattamento economico medio per unità corrisposto nell’ultimo anno del triennio di riferimento a quello dell’ultimo anno del triennio precedente ed ha effetto dal 1° gennaio successivo a quello di riferimento.
Gli stipendi al 1° gennaio del secondo e del terzo anno di ogni triennio sono aumentati, a titolo di acconto sull’adeguamento triennale, per ciascun anno e con riferimento sempre allo stipendio in vigore al 1° gennaio del primo anno, per una percentuale pari al 30 per cento della variazione percentuale verificatasi fra le retribuzioni dei dipendenti pubblici nel triennio precedente, salvo conguaglio a decorrere dal 1° gennaio del triennio successivo.
La percentuale dell’adeguamento triennale prevista dai precedenti commi è determinata entro il 30 aprile del primo anno di ogni triennio con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di concerto con il Ministro di grazia e giustizia e con quello del tesoro.
A tal fine, entro il mese di marzo, l’ISTAT comunica la variazione percentuale di cui al primo comma.
Qualora i dati indicati nei commi precedenti non siano disponibili entro i termini previsti, gli stipendi vengono adeguati con applicazione della stessa percentuale dell’anno precedente salvo successivo conguaglio e ferme restando le date di decorrenza dell’adeguamento.
Nella prima applicazione delle disposizioni precedenti la variazione percentuale è determinata, per il periodo dal 1° luglio 1980 al 31 dicembre 1981, nella misura del 50 per cento della variazione del trattamento economico dei comparti del pubblico impiego di cui al secondo comma del presente articolo verificatasi nel periodo 1° gennaio 1979-31 dicembre 1981 e l’adeguamento decorre dal 1° gennaio 1982. Dal 1° gennaio 1981 gli stipendi in vigore sono aumentati, a titolo di anticipazione sull’adeguamento di cui alla prima parte del presente comma, di una percentuale fissa del 12 per cento, con successivo conguaglio a decorrere dal 1° gennaio 1982».
6.2. Successivamente, la legge 23 dicembre 1998, n. 448, recante “Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo”, all’art. 24 ha previsto la “revisione dei meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato”.
Il citato articolo 24, che si riferisce espressamente al personale non contrattualizzato, prevede che «1. A decorrere dal 1° gennaio 1998 gli stipendi, l’indennità integrativa speciale e gli assegni fissi e continuativi dei docenti e dei ricercatori universitari, del personale dirigente della Polizia di Stato e gradi di qualifiche corrispondenti, dei Corpi di polizia civili e militari, dei colonnelli e generali delle Forze armate, del personale dirigente della carriera prefettizia, nonché del personale della carriera diplomatica, sono adeguati di diritto annualmente in ragione degli incrementi medi, calcolati dall’ISTAT, conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati sulle voci retributive, ivi compresa l’indennità integrativa speciale, utilizzate dal medesimo Istituto per l’elaborazione degli indici delle retribuzioni contrattuali.
2. La percentuale dell’adeguamento annuale prevista dal comma 1 è determinata entro il 30 aprile di ciascun anno con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta dei Ministri per la funzione pubblica e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. A tal fine, entro il mese di marzo, l’ISTAT comunica la variazione percentuale di cui al comma 1. Qualora i dati necessari non siano disponibili entro i termini previsti, l'adeguamento è effettuato nella stessa misura percentuale dell'anno precedente, salvo successivo conguaglio.
(3…).
4. Il criterio previsto dal comma 1 si applica anche al personale di magistratura ed agli avvocati e procuratori dello Stato ai fini del calcolo dell’adeguamento triennale, ferme restando, per quanto non derogato dal predetto comma 1, le disposizioni dell’articolo 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, tenendo conto degli incrementi medi pro capite del trattamento economico complessivo, comprensivo di quello accessorio e variabile, delle altre categorie del pubblico impiego».
L’art. 24 disciplina, al comma 1, la retribuzione dei c.d. dipendenti pubblici non contrattualizzati. Si tratta, nella specie, di particolari categorie (quali i dirigenti apicali delle forze armate e di polizia o i professori universitari) sottoposte ad una disciplina ad hoc, sia per la parte normativa del rapporto di servizio, sia per la parte economica.
Tale circostanza distingue i menzionati dipendenti pubblici da coloro che operano in regime di diritto pubblico (tra cui i militari non apicali, ossia fino al grado, compreso, di tenente colonnello ed equiparati, secondo le previsioni del d.lgs. 12 maggio 1995, n. 195), i quali si caratterizzano per avere una parte disciplinata in maniera para-contrattuale, contraddistinta dal fatto che l’accordo tra amministrazioni (datore di lavoro) e organizzazioni sindacali è destinato ad essere recepito in un decreto del Presidente della Repubblica (v. ad esempio d.P.R. 20 aprile 2022, n. 57).
Per quanto concerne, invece, i magistrati, la disciplina della revisione dei meccanismi di adeguamento retributivo è recata dal comma 4 del citato articolo 24, il quale:
- per un verso, estende l’applicazione del «criterio previsto dal comma 1 […] anche al personale di magistratura ed agli avvocati e procuratori dello Stato ai fini del calcolo dell’adeguamento triennale»;
- per altro verso, precisa che restano ferme, per quanto non derogato dal predetto comma 1, le disposizioni dell’articolo 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, tenendo conto degli incrementi medi pro capite del trattamento economico complessivo, comprensivo di quello accessorio e variabile, delle altre categorie del pubblico impiego.
6.3. La disciplina normativa degli adeguamenti triennali delle retribuzioni del personale di magistratura, dunque, si compone dell’art. 24, comma 4, della legge n. 448/1998 (il quale richiama il comma 1 del medesimo articolo) e dell’art. 2 della legge 27/1982.
7. Ad avviso degli appellanti il complesso di tali disposizioni comporta la conclusione sistematica per cui l’adeguamento delle retribuzioni dei magistrati è sottoposto dalla legge ad un regime “speciale”, in parte distinto da quello valevole per altre categorie di personale pubblico non contrattualizzato.
Questa disciplina è speciale e vincolata, in quanto deve tener conto degli incrementi economici medi pro capite, percepiti dai dipendenti pubblici, calcolati sul trattamento economico complessivo.
Il riferimento al carattere complessivo del trattamento economico implica inoltre che esso è comprensivo, dunque, anche delle voci accessorie e variabili, nonché di quegli incrementi conseguiti da tutte le categorie del pubblico impiego e, dunque, sia da quelle contrattualizzate che da quelle non contrattualizzate.
Al riguardo gli appellanti evidenziano che il comma 4 del citato art. 24 fa riferimento, invero, a tutte le “altre categorie del pubblico impiego”, laddove il comma 1, riferito a categorie diverse dai magistrati, rimanda espressamente alle sole categorie “contrattualizzate”.
Con il decreto del 6 agosto 2021, impugnato dagli odierni appellanti, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha recepito acriticamente l’indicazione dell’ISTAT, non conforme, però, ai ricordati parametri normativi vincolanti, stabilendo che «Le misure degli stipendi del personale di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27, dell’indennità prevista dall’art. 3, primo comma, della stessa legge e dell’indennità integrativa speciale in vigore alla data del 1° gennaio 2018, sono incrementate del 4,85 per cento, con decorrenza 1° gennaio 2021…».
Secondo i ricorrenti il nuovo modello predisposto dall’ISTAT ai fini del calcolo della variazione percentuale nel triennio precedente non è conforme alla predetta disciplina normativa, sotto tre diversi profili, di seguito sintetizzati:
a) il decreto non ha preso a riferimento tutte le voci accessorie e variabili del trattamento economico spettante ai dipendenti pubblici, ma si è limitato, erroneamente, a considerarne unicamente alcune selezionate, qualificate come aventi carattere strettamente retributivo.
Detta arbitraria delimitazione delle componenti valutate, peraltro, risulta effettuata in assenza di un’adeguata istruttoria, volta ad identificare correttamente quelle che, in base al dettato normativo, vanno obbligatoriamente considerate nella base di calcolo.
b) Il decreto impugnato non ha tenuto conto degli incrementi conseguiti, nel triennio precedente, dalla categoria dei dipendenti non contrattualizzati.
Inoltre, nella valutazione degli aumenti ottenuti dai dipendenti contrattualizzati, ha considerato solo un circoscritto numero di categorie, limitando la propria valutazione esclusivamente alle categorie contemplate dall’elenco ISTAT.
c) il decreto impugnato, in luogo del prescritto criterio della media “aritmetica” degli incrementi pro capite conseguiti dal personale pubblico, ha erroneamente applicato il parametro della media “ponderata” degli stessi.
In tal modo, il decreto ha stabilito di attribuire a ciascuna voce un peso specifico, calcolato in base al numero di lavoratori appartenenti alla singola categoria contrattuale di volta in volta considerata. Questa erronea metodologia di calcolo, non prevista dalla disciplina legislativa di riferimento, ha determinato l’attribuzione di un peso maggiore (ingiustificato e sproporzionato) agli incrementi retributivi conseguiti dalle categorie contrattualizzate più numerose.
8. Tali articolate doglianze, tuttavia, non sono state condivise dal giudice di primo grado, sulla base di una serie di considerazioni, puntualmente censurate dagli odierni appellanti mediante tre motivi di doglianza che sono così riepilogati.
9. Con un primo ordine di censure, gli appellanti ripropongono e sviluppano l’assunto secondo cui la metodologia di calcolo dell’ISTAT è inficiata dall’errore di fondo, consistente nella mancata valutazione di alcune voci che compongono inscindibilmente il complessivo trattamento economico dei dipendenti pubblici, quali gli arretrati stipendiali e le indennità di missione o di servizio all’estero.
9.1. Ad entrambe le statuizioni del TAR - argomentate, per gli arretrati, sull’assunto che essi sono già conteggiati nella parte fissa delle tabelle retributive della contrattazione collettiva, e che il loro computo «descriverebbe un andamento altalenante tra i vari anni del triennio […] falsando così i parametri sui quali calcolare l’adeguamento»; e sulla non riconducibilità al corrispettivo per l’ordinaria prestazione lavorativa delle indennità di missione o di servizio all’estero - gli appellanti oppongono la lettera della legge, la quale fa testuale riferimento agli «incrementi medi pro capite del trattamento economico complessivo, comprensivo di quello accessorio e variabile, delle altre categorie del pubblico impiego» (art. 24, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448).
Secondo gli appellanti, quindi, il dato normativo impone inderogabilmente di considerare, ai fini degli adeguamenti stipendiali del personale di magistratura, gli incrementi di tutte le voci che compongono il trattamento dei dipendenti pubblici, comprese quelle accessorie e variabili, comunque denominate, ancorché non aventi l’indicata natura strettamente retributiva.
9.2. Sul punto gli appellanti sottolineano che:
- per un verso, risulta sfornita di prova l’affermazione dell’ISTAT secondo cui la valutazione di queste voci comporterebbe una variazione negativa (in quanto, la loro misura risulterebbe ridotta e non aumentata nel corso del triennio);
- per altro verso, l’ISTAT si è basato su dati incompleti, così da incorrere in una carenza di istruttoria.
9.3. A quest’ultimo riguardo, gli appellanti sostengono, innanzitutto, che non è conforme al dato normativo il riferimento ai dati emersi dall’indagine annuale sulle retribuzioni contrattuali condotta dall’ISTAT, in quanto tale indagine «considera le sole misure tabellari previste per gli accordi collettivi nazionali di lavoro o nelle leggi che disciplinano la materia, e non invece le voci accessorie e variabili», così escludendo il computo di elementi rilevanti del trattamento economico complessivo.
9.4. Gli appellanti aggiungono che analoga carenza istruttoria è riscontrabile nell’altra fonte conoscitiva utilizzata dall’ISTAT, costituita dal Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato.
Infatti, il conto annuale, pur recando un numero di componenti della retribuzione maggiore dell’elenco ISTAT (poiché include lo stipendio, la retribuzione di anzianità, la tredicesima mensilità, l’indennità integrativa speciale, le indennità fisse, il compenso per lavoro straordinario, la remunerazione della produttività e altre competenze accessorie), non comprende, tuttavia, «né le voci aventi carattere non specificatamente retributivo, né le competenze arretrate relative ai rinnovi contrattuali nazionali o derivanti da passaggi di qualifica».
9.5. Al medesimo riguardo, poi, gli appellanti deducono un altro profilo di inadeguatezza istruttoria della determinazione impugnata, in quanto entrambe le fonti utilizzate dall’ISTAT non considerano correttamente, nella loro interezza, tutti gli incrementi economici «conseguiti nell’anno precedente», come invece previsto dall’art. 24, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448. Ciò emerge dal rilievo che i dati del Conto annuale sono disponibili soltanto circa quindici mesi dopo la fine dell’anno a cui si riferiscono e sono comunque provvisori, cioè suscettibili di modifica in occasione delle successive diffusioni. Ne consegue che tali dati non consentono di avere un quadro completo dell’effettiva situazione dell’anno precedente.
A dire degli appellanti, quindi, l’istruttoria è stata condotta sulla base di dati parziali, inidonei a determinare il corretto incremento secondo le vincolanti prescrizioni normative.
9.6. Sarebbero, quindi, rimasti inattuati i precetti costituzionali di autonomia e indipendenza del personale delle magistrature, che, nell’interpretazione della Corte costituzionale (in particolare: sentenze dell’8 novembre 2017, n. 233 e dell’11 ottobre 2012, n. 223), impongono di evitare di collocare la categoria in una permanente logica di rivendicazioni salariali nei confronti degli altri poteri dello Stato.
A tale ratio deve conformarsi il sistema di adeguamento triennale degli stipendi dei magistrati, con la conseguenza che ogni difformità dal modello previsto dal legislatore incide sugli stessi principi costituzionali che tali norme hanno inteso preservare.
9.7. In relazione al disallineamento temporale dei dati complessivi sulla dinamica retributiva complessiva del pubblico impiego, si oppone invece che la soluzione rispettosa del dato normativo avrebbe potuto essere realizzata con la previsione di pagamenti a saldo per ogni triennio.
9.8. Specifiche censure di illogicità sono poi enucleate nei confronti delle sopra esposte ragioni in base alle quali la sentenza di primo grado ha escluso dal computo gli arretrati, che nella misura in cui sono corrisposti a valere su anni precedenti sarebbero completamente esclusi dal calcolo della variazione contrattuale da porre a base degli adeguamenti stipendiali, perché come tali essi «non vengono computati né nel periodo nel quale gli stessi sono stati maturati, in quanto non ancora liquidati e pagati, né nel periodo successivo in quanto “per competenza” non vi rientrano».
In altre parole, il metodo seguito dall’Istituto avrebbe erroneamente escluso dalle voci del trattamento economico da tenere in considerazione nel calcolo tali incrementi retributivi, riguardanti periodi antecedenti a quello dell’anno in corso; ciò sarebbe avvenuto attraverso un’operazione illogica, in base alla quale nel triennio di riferimento gli arretrati non sono calcolati perché non sono stati pagati, e nel triennio successivo non sono calcolati perché fanno riferimento al triennio precedente che, ormai, è stato definito con il precedente decreto.
9.9. Del pari si sostiene che andrebbero conteggiate le indennità per missioni e servizio all’estero, quali «voci accessorie e variabili del trattamento economico del pubblico dipendente».
Al contrario di quanto ritenuto dalla sentenza sarebbe poi irrilevante rispetto al presente giudizio il fatto che la stessa erronea metodologia di calcolo sarebbe stata utilizzata anche per l’adozione del DPCM relativo all’adeguamento retributivo del triennio precedente a quello oggetto di causa, mai contestato dagli odierni appellanti, dal momento che si tratta di periodi temporali e di pretese economiche del tutto distinte; tanto è vero che le stesse amministrazioni resistenti nulla hanno eccepito al riguardo.
10. Con un secondo motivo d’appello viene censurata la scelta metodologica dell’ISTAT di utilizzare la media ponderata delle retribuzioni medie pro capite calcolate per ogni contratto collettivo nazionale, tenuto conto della consistenza numerica di ciascun comparto, in luogo della «media aritmetica» delle categorie di lavoratori prevista dalla legge.
Anche in questo caso sarebbe stato violato l’art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, che attraverso il testuale riferimento agli «incrementi medi» avrebbe in tesi individuato quale base di computo la «media delle categorie», da intendersi quale media aritmetica. Sul punto, l’adozione del temperamento dato dalla ponderazione degli incrementi medi in base alla consistenza delle categorie della contrattazione avrebbe comportato l’arrogazione da parte dell’ISTAT di un potere discrezionale privo di base normativa, con conseguenze irrazionali.
Sarebbe del pari errato l’assunto della sentenza secondo cui la legge avrebbe imposto di calcolare il «trattamento economico medio per unità», dacché ad avviso del primo giudice la correttezza della ponderazione in base alla consistenza numerica di ciascun comparto, laddove il più volte richiamato art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, avrebbe invece individuato la base di calcolo negli incrementi registratisi presso le «altre categorie del pubblico impiego», e dunque l’«incremento medio “per categorie”, intese come unità statistiche».
Sarebbe, inoltre, matematicamente errata l’equivalenza supposta dalla sentenza tra il calcolo della media degli incrementi delle categorie di pubblici impiegati rispetto al calcolo della media aritmetica degli incrementi dei singoli dipendenti pubblici.
11. Con un ulteriore ordine di censure si ripropone l’assunto secondo cui sarebbe in contrasto con la legge anche l’esclusione dal calcolo degli aumenti conseguiti da alcune categorie del pubblico impiego, ed in particolare il personale non contrattualizzato, da considerarsi invece incluso nel riferimento onnicomprensivo alle «altre categorie del pubblico impiego», fatto dall’art. 24, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e che nel caso di specie sarebbe particolarmente consistente: «circa 600.000 dipendenti su 2.800.000».
Si contestano le ragioni esposte dalla sentenza a fondamento della statuizione di rigetto delle censure formulate sul punto dai ricorrenti, incentrate sulla pretesa duplicazione di variazioni retributive in aumento, in ragione della previsione di analoghi meccanismi di adeguamento previsti per le altre categorie del pubblico impiego non contrattualizzato.
Si sostiene che diversamente da quanto affermato dal Tar, la rilevazione campionaria delle categorie di pubblici impiegati da includere nel calcolo, che l’ISTAT ha ritenuto di poter effettuare, ha avuto un’incidenza certamente significativa sul calcolo effettuato.
Infatti, le categorie non considerate dall’ISTAT rappresenterebbero il 27 per cento delle categorie del pubblico impiego, sicché eliminarle dal calcolo creerebbe una grave distorsione dell’esatto risultato cui si dovrebbe pervenire. Si tratterebbe, comunque, di una scelta del tutto irragionevole.
12. Le illustrate censure proposte dagli appellanti sono fondate, per le ragioni di seguito esposte.
13. Innanzitutto, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, è errata l’esclusione degli arretrati e delle indennità di missione o di servizio dal computo degli incrementi economici ottenuti nel triennio dai dipendenti pubblici.
13.1. La conclusione cui è pervenuta la sentenza di primo grado, recependo le difese delle amministrazioni intimate, si basa su due argomenti:
- la pretesa natura non retributiva dell’emolumento;
- l’asserita alterazione della «media delle retribuzioni», che comporterebbe il computo di tale voce economica, in ragione della «natura meramente eventuale e non strettamente connessa con l’ordinario svolgimento della prestazione lavorativa, stricto sensu intesa».
13.2. Il primo argomento del TAR, tuttavia, si basa su presupposto interpretativo errato, che non tiene conto delle precise regole fissate dalla disciplina legislativa in materia.
Infatti la speciale regolamentazione dell’adeguamento triennale degli stipendi del personale di magistratura non fa riferimento alle retribuzioni delle altre categorie del pubblico impiego, ma considera:
- il «trattamento economico complessivo, comprensivo di quello accessorio e variabile, delle altre categorie del pubblico impiego» (così l’art. 24, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448);
- il «complesso del trattamento economico medio corrisposto nell’ultimo anno del triennio di riferimento» (art. 2, comma 3, della legge 19 febbraio 1981, n. 27).
13.3. La differenza lessicale e concettuale tra retribuzione e trattamento economico va ravvisata nel fatto che la seconda locuzione comprende ogni componente corrisposta al lavoratore per il servizio prestato, a prescindere dal fondamento causale e dalla funzione nell’ambito del sinallagma contrattuale con l’amministrazione.
L’impiego legislativo dell’espressione trattamento economico, tanto più quando questo è definito dalla legge «complessivo» ed è accompagnato dalla specificazione che, per il suo calcolo, vanno considerate anche tutte le voci di carattere «accessorio e variabile», denota la volontà legislativa di includere nel computo degli incrementi da porre a base dell’adeguamento stipendiale del personale di magistratura tutti gli emolumenti comunque e a qualsiasi titolo corrisposti nel pubblico impiego, senza distinzioni, limitazioni ed esclusioni di sorta.
Sono dunque riconducibili alla nozione di trattamento economico tutte le somme corrisposte al dipendente pubblico, ancorché prive della funzione direttamente e immediatamente remuneratoria della prestazione lavorativa svolta, tipica della retribuzione intesa in senso stretto.
13.4 Per quanto di specifico interesse nel presente giudizio vanno dunque incluse nel computo degli incrementi le indennità aventi funzione reintegratoria e riparatoria di una diminuzione patrimoniale conseguente ad un maggior volume di spese che il lavoratore sopporta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, nel cui paradigma rientrano, pertanto, anche le indennità di missione o di servizio all’estero (in questi termini: Cons. Stato, VII, 18 aprile 2024, n. 3409, riguardante l’indennità di servizio all’estero ex art. 170 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18).
A conferma della differenziazione concettuale tra retribuzione e trattamento economico va sottolineato che proprio su questa base nel precedente di questa sezione ora richiamato si è sancita la non computabilità dell’indennità di servizio all’estero nel limite retributivo a carico della finanza pubblica introdotto dall’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011 n. 201 (recante Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), come successivamente modificato. Pertanto, il fatto che tali indennità non costituiscono il “prezzo ordinario” della prestazione lavorativa, come affermato dal Tar, è del tutto irrilevante ai fini del calcolo dell’adeguamento retributivo, poiché il citato art. 24, comma 4, della legge n. 448/1998 non fa riferimento alle sole componenti retributive, ma considera espressamente l’intero trattamento economico complessivo, comprensivo di quello accessorio e variabile.
A fronte di tale preciso dettato normativo, quindi, la determinazione adottata dall’amministrazione, che ha escluso dal calcolo le indennità di missione o di servizio all’estero, che compongono il trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici, si pone in evidente contrasto con la legge.
13.5. Il chiaro dato letterale della norma impone, infatti, di avere riguardo agli «incrementi medi pro capite del trattamento economico complessivo, comprensivo di quello accessorio e variabile, delle altre categorie del pubblico impiego», conseguiti nell’anno precedente, laddove, per le altre categorie di dipendenti non contrattualizzati, il comma 2 dello stesso art. 24 fa invece riferimento agli aumenti conseguiti «sulle voci retributive».
A rafforzare questo esito si pone l’ulteriore considerazione di ordine sistematico, fondata sul principio ubi lex voluit dixit. In tale prospettiva, va rammentato che quando il legislatore ha voluto prendere in considerazione solo alcune componenti retributive del trattamento economico del dipendente lo ha prescritto espressamente: si può indicare, in tal senso, l’art. 2120 cod. civ. per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
13.6. Non è persuasivo nemmeno l’argomento espresso dalla sentenza appellata, in adesione alla difesa dell’amministrazione, secondo cui includendo anche tali voci nel calcolo degli incrementi conseguiti nel triennio si potrebbe pervenire ad una variazione negativa dell’indicatore o di alcuni parametri.
Al proposito, occorre evidenziare che, in concreto, non risulta dimostrato che, nel triennio di riferimento, l’ipotizzata variazione negativa si sia effettivamente manifestata.
In ogni caso, resta fermo il riscontrato difetto istruttorio del provvedimento impugnato, giacché è mancata, in radice, proprio la valutazione della dinamica del trattamento economico dei dipendenti pubblici nel triennio considerato, in evidente violazione dei criteri fissati dalla legge.
13.7. Parimenti errata, come poc’anzi accennato, risulta l’esclusione degli arretrati corrisposti nel triennio dalla rilevazione degli incrementi del trattamento economico.
Non è condivisibile, al riguardo, l’opposta conclusione cui è pervenuto il TAR, pur muovendo da una premessa ricostruttiva esatta.
13.8. Infatti, non è revocabile in dubbio che gli arretrati derivano dallo «sfasamento temporale tra il rinnovo del contratto collettivo e la sua decorrenza temporale». Essi consistono, in altri termini, nella corresponsione di emolumenti retributivi in via differita rispetto all’epoca di maturazione, a causa del ritardato rinnovo contrattuale rispetto alla scadenza della parte economica.
Nondimeno, è errato sostenere che a causa di questa dilazione temporale gli arretrati corrisposti in un determinato anno, conseguentemente già conglobati nel trattamento economico del medesimo periodo, darebbero luogo ad un «andamento altalenante tra i vari anni del triennio (in quanto nell’anno della corresponsione di esso le somme percepite sarebbero maggiori)»; o finanche ad un andamento altalenante tra diversi trienni, laddove in ipotesi in alcuno di questi non si verificasse alcun rinnovo contrattuale.
Anche questo riferimento alle oscillazioni riguardanti la presenza, o meno, di voci economiche riguardanti gli arretrati, tuttavia, non è supportato da una adeguata verifica concreta circa la loro entità nel triennio considerato e la loro effettiva incidenza sul trattamento economico complessivo.
In ogni caso, la determinazione adottata dall’amministrazione, intesa ad escludere radicalmente il conteggio degli arretrati comporta un’evidente aporia, perché conduce a considerare mai avvenuti incrementi retributivi per l’anno o gli anni in cui essi sono maturati ma non sono stati corrisposti.
Comporta, poi, l’ulteriore irrazionale conseguenza di porre a carico del personale di magistratura interessato all’adeguamento i ritardi della contrattazione collettiva del pubblico impiego.
13.9. In ogni caso, ferma restando l’esigenza di rispettare il dettato normativo, espresso come sopra precisato in termini di onnicomprensività del trattamento economico da considerare a base di computo degli adeguamenti triennali, la soluzione correttiva all’ ipotizzato andamento altalenante delle voci arretrate, sulla base delle indicazioni di carattere statistico fornite in giudizio dall’ISTAT, consiste nel computare gli arretrati secondo un criterio di competenza, riferito cioè alla data di maturazione del maggior emolumento derivante dai rinnovi contrattuali. Di qui l’eventuale corresponsione a favore del personale di magistratura di eventuali arretrati a conguaglio laddove gli aumenti da rinnovi contrattuali fonte degli arretrati siano imputabili a trienni precedenti.
13.10. La soluzione ora esposta è ricavabile direttamente dal cogente dettato legislativo, ed in particolare dal riferimento agli «incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti» contenuto nell’art. 2, comma 1, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, ed è coerente con l’esigenza da esso ricavabile di adeguare gli stipendi del personale di magistratura all’effettiva dinamica delle retribuzioni del pubblico impiego. Essa consente, inoltre, di superare le difficoltà di rilevazione statistica e ricostruzione degli incrementi esposte in giudizio dall’ISTAT e fatte proprie dalla sentenza di primo grado.
14. La sentenza impugnata risulta errata anche nella parte in cui, respingendo il motivo articolato dai ricorrenti, ha reputato conforme alla normativa di legge sull’adeguamento triennale degli stipendi del personale di magistratura anche l’applicazione del criterio della media ponderata degli incrementi retributivi del pubblico impiego.
14.1. In tal modo, il provvedimento impugnato ha attribuito a ciascuna voce di incremento economico ottenuto nel triennio un peso specifico calcolato in base al numero di lavoratori appartenenti alla singola categoria contrattuale considerata.
Secondo il Tar il calcolo così effettuato - cioè «tenendo conto degli incrementi medi pro capite, ossia il trattamento economico medio per unità» - sarebbe stato correttamente operato, in quanto andrebbe individuata la media aritmetica dell’aumento conseguito da ogni singolo dipendente pubblico; sicché se più alto è il numero dei dipendenti cui si applica un certo contratto collettivo, allo stesso modo maggiore sarà il loro peso nel calcolo complessivo.
14.2. Questa soluzione interpretativa, tuttavia, non trova riscontro nel dettato legislativo, che non prevede affatto il criterio della “media ponderata”.
Come argomentano i ricorrenti, le sopra citate disposizioni di legge impongono di computare gli incrementi sulla base delle variazioni riguardanti ciascuna delle diverse categorie di dipendenti pubblici, senza imporre - e nemmeno consentire - alcuna ponderazione in base alla consistenza numerica delle categorie stesse.
14.3. L’opposta operazione di carattere statistico non può trovare alcuna giustificazione nel riferimento agli «incrementi medi pro capite», contenuto nell’ultimo inciso dell’art. 24, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448.
14.4. Più precisamente, quest’ultima disposizione, dopo avere richiamato il comma 1, relativo al personale dipendente pubblico non privatizzato, per il quale è previsto un analogo meccanismo di adeguamento, con periodizzazione annuale, basato sugli «incrementi medi (…) conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati sulle voci retributive…», precisa per il personale di magistratura, per il quale invece l’adeguamento è triennale, che si deve tenere conto «degli incrementi medi pro capite del trattamento economico complessivo, comprensivo di quello accessorio e variabile, delle altre categorie del pubblico impiego».
14.5. Un’analoga previsione è contenuta sempre per il personale di magistratura nell’art. 2, comma 2, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, laddove, a specificazione del riferimento contenuto nel precedente comma 1 agli «incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti», precisa che si deve tenere conto dei «benefici medi pro capite dei seguenti comparti del pubblico impiego: amministrazioni statali, aziende autonome dello Stato, università, regioni, province e comuni, ospedali, enti di previdenza».
14.6. Alla luce di tali previsioni normative, deve innanzitutto evidenziarsi che se l’art. 24, comma 4, l. 448/1998 prevede che le retribuzioni vanno adeguate «tenendo conto degli incrementi medi pro capite del trattamento economico complessivo», ha però poi specificato che l’incremento da prendere in considerazione è quello conseguito dalle «altre categorie del pubblico impiego», così riferendo espressamente l’incremento da porre alla base del calcolo per l’adeguamento retributivo dei magistrati alle altre categorie dei pubblici impiegati e dunque non ai singoli dipendenti che ne fanno parte.
Il dato normativo prescrive, pertanto, di utilizzare come base di calcolo l’incremento medio delle categorie contrattuali e di applicare la media aritmetica tra categorie (intese come unità statistiche), senza poter riconoscere un peso al numero dei dipendenti della categoria.
14.7. Come poi si evince dal testo normativo sopra riportato, anche l’art. 2 della legge n. 27 del 1981, a specificazione di quanto previsto al comma 1 - ove è disposto che gli stipendi del personale di magistratura sono adeguati di diritto, ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli «incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti» - precisa che si deve tenere conto dei «benefici medi pro capite dei seguenti comparti del pubblico impiego», contenendo quindi un inequivoco riferimento alla media tra categorie.
14.8. Come in precedenza accennato, è dunque erroneo ricavare dalle disposizioni ora citate l’obbligo di ponderare la media degli incrementi registrati nel triennio da ciascuna categoria.
La considerazione degli incrementi individuali - «benefici medi pro capite» - va invece operata all’interno di esse, in modo da ottenere un dato medio riferito a quest’ultima.
Il dato di partenza è infatti costituito dagli «incrementi medi» conseguiti dalle altre categorie di pubblici dipendenti, previsto dal comma 1 e richiamato dal comma 4 dell’art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448.
La corretta applicazione delle disposizioni in esame comporta quindi che l’incremento del trattamento economico fatto registrare all’interno di ciascuna categoria nel triennio in considerazione va calcolato a prescindere dai benefici individuali, ovvero dagli incrementi conseguiti dal singolo (pro capite) in ragione del suo inquadramento e quindi della sua collocazione all’interno delle carriere della complessiva categoria.
Il dato medio così ottenuto per ciascuna categoria va poi considerato al pari delle altre, per cui la media tra categorie è aritmetica e non già ponderata in base alla rispettiva consistenza numerica.
In violazione della normativa di legge, la ponderazione degli incrementi di ciascuna categoria in base alla rispettiva consistenza numerica comporta che nella determinazione degli incrementi medi venga diluito in modo ingiustificato il peso di quelli registrati dalle categorie a più ristretta base, ma che in ragione di ciò conseguono incrementi mediamente maggiori delle altre.
Come correttamente dedotto dagli appellanti, l’operato dell’amministrazione è dunque contrario alla lettera della norma e, per questa via, ha inciso sulla sua stessa ratio che è quella di garantire il corretto adeguamento retributivo del personale di magistratura.
14.9. Per completezza, va osservato che risulta errata anche l’affermazione, contenuta nella sentenza appellata, secondo cui le due alternative modalità di calcolo (media aritmetica, o media aritmetica ponderata) restituirebbero lo stesso risultato.
Al riguardo, vanno condivise le argomentate deduzioni degli appellanti.
In ogni caso, ciò che rileva è la necessità di rispettare il corretto metodo di calcolo imposto dalla legge, a nulla rilevando che, in concreto, le due metodologie di calcolo potrebbero condurre a risultati identici o molto simili.
In relazione al triennio di riferimento, del resto, compete all’amministrazione verificare, con adeguata istruttoria, il risultato ottenuto tramite la corretta applicazione del parametro della media aritmetica non ponderata.
La scelta legislativa della media aritmetica tra categorie non appare irrazionale, poiché tiene conto della opportunità di considerare le persistenti differenze tra le dinamiche riguardanti ciascuna categoria del pubblico impiego, laddove l’ipotizzato criterio della media aritmetica ponderata finirebbe per trascurare l’articolazione del lavoro pubblico.
15. Infine, sotto un altro profilo la sentenza impugnata erra palesemente nel sostenere che la normativa di legge sull’adeguamento triennale degli stipendi del personale di magistratura abbia rimesso all’ISTAT il potere di svolgere una propria «valutazione tecnico-statistica» delle categorie da includere nel computo degli incrementi registratisi nel triennio in considerazione, al punto da potere «benissimo non prendere in considerazione alcune categorie del pubblico impiego», purché sulla base di scelte ragionevoli.
15.1. Una simile affermazione equivale a ritenere disapplicabile in via amministrativa la sovraordinata volontà legislativa, espressa in modo chiaro e inequivocabile, ai sensi dell’art. 12, comma 1, delle preleggi, nel senso che gli incrementi da computare per gli adeguamenti degli stipendi del personale di magistratura sono quelli registratisi nelle altre categorie del pubblico impiego, anche in questo caso senza alcuna distinzione di sorta.
15.2. Più nello specifico, il riferimento testuale alle «altre categorie dei pubblici dipendenti» (art. 2, comma 1, della legge 19 febbraio 1981, n. 27) e alle «altre categorie del pubblico impiego» (art. 24, comma 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448), senza ulteriori specificazioni o limitazioni, non consente alcuna operazione di carattere manipolativo volta ad escludere alcune categorie. La chiarezza inequivoca del dato letterale non si presta ad alcuna differente interpretazione.
15.3. La violazione è invece confessoriamente dichiarata dalle amministrazioni resistenti (le quali ammettono di aver effettuato una mera rilevazione campionaria delle categorie di dipendenti contrattualizzati e che non sono stati presi in considerazione tutti i contratti collettivi nazionali, escludendo in particolare talune categorie del personale non contrattualizzato), salva la contestazione sull’entità dello scostamento rispetto all’obbligo di legge rispetto alle contrapposte deduzioni dei ricorrenti; e ciò è sufficiente ad invalidare l’operazione a base del DPCM impugnato nel presente giudizio.
La stessa sentenza appellata, non impugnata sul punto, ha infatti rilevato che «l’ISTAT ha chiarito di non considerare nelle proprie operazioni di calcolo gli aumenti conseguiti dai dirigenti non contrattualizzati, in quanto asseritamente esclusi dal dato normativo, nonché di quelli ottenuti dai dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’art. 1 d.lgs. C.p.S. 17 luglio 1947, n. 691, l. 4 giugno 1985, n. 281, e l. 10 ottobre 1990, n. 287 e nella carriera dirigenziale penitenziaria, poiché non compresi nella propria indagine sulle retribuzioni contrattuali».
15.4. L’istruttoria condotta dall’Istituto si rivela dunque inadeguata e carente anche con riferimento all’assunzione a doveroso parametro, in base al chiaro tenore letterale delle norme, di tutte le categorie di dipendenti che devono essere monitorate ai fini dell’adeguamento triennale stesso (le quali devono comprendere anche il personale non contrattualizzato, così come previsto dall’art. 24, comma 4, l. 23.12.1998, n. 448).
L’eventuale lacunosità delle fonti conoscitive utilizzate dall’ISTAT o la complessità delle operazioni tecniche imposte dalla legge non valgono a giustificare un metodo di calcolo non conforme alle previsioni normative né una istruttoria carente da parte dell’amministrazioni competenti ad effettuare adeguamenti retributivi rispettosi della legge.
15.5. Risulta poi apodittico l’assunto secondo cui l’inclusione del pubblico impiego non contrattualizzato determinerebbe una duplicazione del medesimo parametro a favore del personale di magistratura, posto che il primo è beneficiario a sua volta di un analogo meccanismo di adeguamento stipendiale, previsto come in precedenza accennato dall’art. 24, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, tuttavia con l’espresso riferimento agli «incrementi medi, (…) conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati».
In contrario è agevole rilevare la diversa disciplina prevista per il personale di magistratura dal comma 4 della medesima disposizione, sia sotto il profilo della periodizzazione, che è triennale anziché annuale, sia con riguardo alla base di computo, per il quale si fa espresso riferimento come poc’anzi esposto alle «altre categorie del pubblico impiego» (laddove il comma 1 dell’art. 24 l. 448/1998 per il pubblico impiego non contrattualizzato fa invece riferimento agli aumenti conseguiti nell’anno precedente «dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati…»). La diversità di disciplina è indice di una volontà legislativa di riservare al meccanismo di adeguamento delle retribuzioni del personale di magistratura delle caratteristiche di specialità, che trova giustificazione nel valore della funzione giurisdizionale e nella necessità di attuare anche per tale via il precetto della indipendenza degli organi ad essa preposti.
15.6. Alla conclusione opposta non conduce nemmeno il richiamo della sentenza al testo dell’art. 2 l. 27/1981 laddove nell’indicare quali siano i comparti del pubblico impiego da prendere in considerazione escluderebbe dal calcolo le retribuzioni dei dipendenti della Banca d’Italia, nonché quelli impiegati presso le altre autorità amministrative indipendenti. L’art. 2, infatti, rappresenta una norma di carattere generale, il cui disposto è stato successivamente integrato dalla l. 448/1998 che per i magistrati ha dettato le specifiche disposizioni più volte citate che impongono l’inclusione nel calcolo degli adeguamenti delle «altre categorie del pubblico impiego», senza alcuna distinzione.
Del resto, come riconosciuto dalla stessa sentenza appellata, numerose autorità amministrative indipendenti, il cui personale è stato escluso dai calcoli dell’ISTAT, sono state istituite successivamente all’adozione della l. 27/1981, la quale non poteva perciò espressamente ricomprenderli. Non vi è tuttavia ragione - a legislazione vigente - di escludere tale personale dalle «altre categorie del pubblico impiego», secondo l’onnicomprensiva indicazione di cui all’art. 24, comma 4, della legge n. 448/1998, successiva all’istituzione della categoria di amministrazioni pubbliche in questione.
16. Infine, anche l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui i ricorrenti non avrebbero allegato alcun concreto pregiudizio economico è infondata alla luce di quanto evidenziato nella perizia di parte, oltre ad essere smentita dalla considerazione per cui era preciso onere dell’amministrazione (che dispone dei dati necessari) dimostrare che il risultato del diverso metodo di calcolo prospettato dai ricorrenti sarebbe stato negativo.
17. In ogni caso, gli appellanti hanno agito in giudizio a tutela del loro interesse a un corretto calcolo dell’adeguamento retributivo dovuto, conformemente alle previsioni di legge.
18. L’appello deve quindi essere accolto.
19. Per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado il ricorso proposto dinanzi al TAR va accolto e devono essere annullati gli atti con esso impugnati, con il conseguente obbligo dell’amministrazione di adottare nuove determinazioni conformi ai criteri derivanti dalla presente decisione di accoglimento.
Nel dettaglio, in esecuzione della presente sentenza dovranno quindi essere riformulati i conteggi degli incrementi stipendiali nei termini indicati in motivazione.
Resta fermo, peraltro, anche in coerenza con gli interessi azionati dalle parti vittoriose in giudizio e in continuità con il consolidato indirizzo secondo cui il giudice amministrativo ha il potere dovere di modulare gli effetti caducatori delle proprie pronunce di annullamento (cfr. Cons. Stato, VI, 10 maggio 2011, n. 2755), che nelle more del riesercizio del potere in senso conforme alla presente statuizione di accoglimento del ricorso, i provvedimenti impugnati continuano ad esplicare interamente i loro effetti giuridici ed economici.
Pertanto:
- non sono ripetibili gli emolumenti già corrisposti, sui quali dovranno essere erogati successivamente i conguagli derivanti dall’eventuale variazione in aumento per effetto dei riconteggi;
- fino all’adozione dei nuovi provvedimenti che determineranno la corretta misura dell’adeguamento triennale, conserva efficacia l’impugnato DPCM.
20. La complessità e novità delle questioni controverse giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, accoglie il ricorso ed annulla gli atti con esso impugnati, con la decorrenza indicata in motivazione e salvo il riesercizio del potere amministrativo.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2025 con l’intervento dei magistrati:
Marco Lipari, Presidente
Fabio Franconiero, Consigliere, Estensore
Angela Rotondano, Consigliere
Pietro De Berardinis, Consigliere
Laura Marzano, Consigliere
         
         
L'ESTENSORE        IL PRESIDENTE
Fabio Franconiero        Marco Lipari
         
         
         
         
         
IL SEGRETARIO

 

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