Sentenza del 18/02/2025 n. 2214/23 - Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma
Retribuzione convenzionale per il dipendente in smart working?
In tema di IRPEF, non è possibile applicare il regime agevolativo previsto dall’art. 51, co. 8-bis TUIR – che, come noto, consente a certe condizioni di tassare il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero assumendo come base imponibile una retribuzione convenzionale anziché quella corrisposta effettivamente al lavoratore – all'attività svolta dal dipendente in smart working dall’Italia.
Sulla base di questo assunto, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma ha rigettato la doglianza del contribuente, direttore generale di una società britannica, secondo cui la prestazione del lavoro da remoto, nel caso di specie, si era resa necessaria a causa delle restrizioni conseguenti alla pandemia da c.d. “Covid-19” ed era, dunque, equiparabile ad un periodo di ferie che, per la normativa invocata, consente di fruire del beneficio a prescindere dalla presenza all’estero del dipendente.
A parere dei giudici romani, l’attività svolta a distanza determina una modifica delle modalità e del luogo di svolgimento del lavoro sostitutiva dell’originaria sede estera, non paragonabile ad un periodo di ferie o sospensione, che incide negativamente sui requisiti di continuità ed esclusività richiesti dall’art. 51 citato (nello specifico, tali requisiti sono: che l’attività lavorativa sia svolta all’estero con carattere di permanenza e sufficiente stabilità; che costituisca l’oggetto esclusivo del rapporto di lavoro; che il lavoratore soggiorni, nell’arco di dodici mesi, nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni).
Intitolazione:
Nessuna intitolazione presente
Massima:
Nessuna massima presente
Testo:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ritualmente notificato, A. S. ha impugnato il silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso presentata il giorno 8 novembre 2022, avente ad oggetto l'IRPEF sulle proprie entrate connesse ai compensi percepiti nella sua qualità, rivestita fino a settembre 2021, di direttore generale di F. Group Ltd, società britannica che opera nel settore dell'intrattenimento televisivo.
L'istanza aveva ad oggetto le maggiori imposte versato nell'anno 2020, per un totale di € 710.578,00.
Il ricorrente sosteneva che nel caso concreto si dovrebbe richiamare l'art. 51 comma 8bis TUIR che consente, a determinate condizioni, di calcolare in misura forfettaria la retribuzione percepita all'estero da sottoporre ad imposizione in Italia, ossia nel Paese in cui il titolare di quel reddito ha la propria residenza fiscale.
Deduceva che ha svolto la propria attività presso la sede principale del datore di lavoro estero sita a Londra (1 Stephen Street, W1T 1AL) ivi recandosi giornalmente sino al marzo 2020 quando, a causa del rapido diffondersi della pandemia da COVID-19, mosso da esigenze familiari e di tutela della propria salute nonché in considerazione delle preannunciate restrizioni adottate dalle autorità governative italiane e inglesi, ha lasciato Londra per raggiungere la propria famiglia a Roma. Da tale momento l'istante non avrebbe potuto fare ritorno nel Regno Unito a causa delle numerose misure restrittive volte a contrastare la diffusione del virus adottate dagli Stati colpiti dall'emergenza.
Ricordava che il Governo era più volte intervenuto per dichiarare lo stato di emergenza e limitare gli ingressi e le partenze verso l'estero imponendo alternativamente lockdown, divieti di spostamento e obblighi di quarantena/test COVID. Ne sarebbe risultato un quadro normativo che per la maggior parte del 2020 avrebbe impedito la libera circolazione delle persone anche in presenza di esigenze lavorative, ove non essenziali, anche perché i medesimi provvedimenti erano stati adottati nel Regno Unito.
Riferiva che, alle suddette restrizioni si erano accompagnate quelle dettate dal datore di lavoro del ricorrente che avrebbe imposto la chiusura della sede lavorativa di Londra dal 13 marzo 2020 sino alla fine dell'anno se non per i soggetti incaricati delle attività essenziali di produzione dei programmi della Società, vietato al ricorrente di accedere ai locali della Società, raccomandato il rientro dei dipendenti nel proprio paese di origine (proprio per evitare le conseguenze pregiudizievoli personali e di salute conseguenti alla permanenza nello Stato estero); ed imposto l'obbligo di svolgere l'attività lavorativa in modalità smart working (i.e. dall'Italia per quanto attiene al ricorrente) e il divieto di effettuare viaggi per motivi lavorativi.
Affermava che, per effetto di tale situazione complessiva, si integrava il requisito temporale richiesto per l'applicazione dell'art. 51, comma 8-bis del TUIR in quanto, ai fini della verifica del superamento del periodo di 183 giorni trascorsi all'estero, non dovrebbero essere considerati solo i giorni di presenza fisica dell'istante in UK (gennaio-febbraio) ma anche (e fino a concorrenza) il periodo (marzo-dicembre) che questi ha forzatamente trascorso in Italia (tanto su direttiva del datore di lavoro quanto a causa delle ricordate restrizioni governative). Il ricorrente avrebbe, di conseguenza, diritto ad ottenere il rimborso di € 710.578,00, quale differenza tra quanto versato e quanto dovuto in forza della applicazione della citata disposizione.
In subordine, chiedeva il rimborso della somma di € 515.584,50 (17) quale maggiore IRPEF e relative addizionali versate in relazione all'"Executive bonus" e alle somme percepite sulla base del "Long Term Incentive Plan" in relazione all'attività svolta nel 2019 (per complessivi € 1.107.055,00), riferibili alla prestazione lavorativa svolta dal ricorrente nell'anno 2019, in cui l'attività è stata pacificamente svolta con presenza fisica all'estero e devono, dunque, ritenersi assorbite nella retribuzione convenzionale applicata all' anno di maturazione.
Si costituiva in giudizio l'Agenzia delle Entrate opponendosi alla richiesta di rimborso ritenendo che mancassero del tutto i requisiti che giustificherebbero l'applicabilità dell'art. 51 comma 8 bis TUIR.
Tale norma, sosteneva, consente di prendere a riferimento per il calcolo della base imponibile Irpef non il valore effettivo della somma pagata al dipendente come corrispettivo per la prestazione lavorativa resa all'estero, bensì una retribuzione convenzionale il cui importo (più esiguo, quindi più favorevole al contribuente) viene definito con apposito decreto ministeriale emanato dal Ministero del Lavoro.
Tuttavia, l'art. 51 comma 8bis sarebbe applicabile solo nel caso in cui l'imposta colpisce il "reddito di lavoro dipendente prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto". Dal testo della norma si potrebbero così desumere le due condizioni cui viene subordinato l'accesso a questo regime fiscale: - la continuità intesa come svolgimento dell'attività lavorativa all'estero per un lasso di tempo superiore a 183 giorni; e l'esclusività nel senso che il rapporto di lavoro può avere ad oggetto solo e soltanto la prestazione resa al di fuori del territorio italiano.
Secondo il ricorrente, il periodo di soggiorno forzato in Italia per via delle restrizioni dovute alla pandemia Covid19 sarebbe equiparabile alle ferie, festività e più in generale ai giorni non lavorativi che, a prescindere dal luogo in cui sono trascorsi, la Circolare del Ministero delle Finanze n. 207 del 2000 consente di conteggiare nel calcolo della durata minima (183 giorni) di permanenza del lavoratore all'estero.
Questa circolare però indicherebbe periodi in cui il datore di lavoro è tenuto a pagare il corrispettivo al dipendente anche se non ha ricevuto la prestazione che gli spetta. Al contrario, nei giorni in cui si è trattenuto in Italia il ricorrente ha continuato a lavorare seppur a distanza, con l'aiuto degli strumenti tecnologici. Il paragone fra fisiologici periodi di inattività, di cui il dipendente può legittimamente godere nell'ambito del rapporto di lavoro, e patologici periodi di sospensione obbligata in cui si è reso necessario escogitare nuove soluzioni per proseguire l'attività lavorativa nell'interesse dell'impresa secondo l'Ufficio quindi non sarebbe appropriato.
Infatti, prosegue l'Ufficio, in base all'art. 23 TUIR , quando il contribuente non risiede in Italia, "si considerano prodotti nel territorio dello Stato [...] i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato" e "i redditi di lavoro autonomo derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato". Come si può evincere dalla lettura di questa norma, la necessaria collocazione dell'attività lavorativa nel territorio dello Stato è collegata alla presenza fisica in Italia del contribuente che deve eseguire la prestazione richiesta dal datore di lavoro o dal cliente; e per coerenza considerazioni analoghe dovrebbero valere anche per i proventi che il lavoratore consegue all'estero. Potendo svolgere l'attività da remoto grazie alle interazioni per via telematica, considerato che non sarebbe più necessario occupare una postazione presso un ufficio in cui ci si deve presentare quotidianamente, l'abitazione nel Paese di provenienza del dipendente può sostituire a tutti gli effetti l'originaria sede estera di lavoro, ma ciò determina il venir meno uno dei requisiti fissati dall'art. 51 comma 8-bis ossia l'esclusività della prestazione resa all'estero. Questa modalità di lavoro così flessibile mal si concilierebbe con la ratio della norma che mirerebbe invece a privilegiare l'attività materialmente svolta oltre i confini nazionali. Anzi, dal momento che lo smart working servirebbe proprio a bilanciare gli impegni di lavoro con le esigenze familiari, la perdita del beneficio fiscale sarebbe coerente all'esercizio per via telematica dell'attività lavorativa proprio nel luogo in cui il contribuente ha fissato la propria residenza, vale a dire il centro dei suoi affetti e della sua vita di relazioni.
Infine, il ricorrente non potrebbe invocare a propria difesa la causa di forza maggiore. Difatti, come precisato dai giudici di legittimità, "non può essere preteso un comportamento quando lo stesso sia divenuto impossibile senza colpa di chi vi sia tenuto" (Cass. S.U. sent. n. 8094/2020). Nel caso in esame il fatto impeditivo consiste nell'impossibilità di fare ritorno nel Regno Unito, ma, quando a marzo 2020 il ricorrente ha lasciato Londra per ricongiungersi alla propria famiglia in Italia già si poteva immaginare, per come si stava evolvendo la situazione pandemica a livello internazionale, che un eventuale rientro oltremanica sarebbe stato quantomeno complicato. Comprensibilmente il ricorrente ha dunque deciso di partire per stare accanto alla sua famiglia in ma ciò determina l'assenza dell'imprevedibilità e poi già a giugno 2020 veniva disposta la graduale riapertura delle frontiere fra gli Stati europei (Regno Unito compreso): poiché, date le circostanze, il ricorrente preferiva restare in Italia insieme alla sua famiglia e lavorare a distanza la sua scelta di non tornare oltremanica era con ogni probabilità la più vantaggiosa, ma di certo non l'unica possibile.
Perciò verrebbe meno anche il secondo elemento che integra gli estremi della causa di forza maggiore, ossia l'inevitabilità.
Contestava l'Ufficio anche la spettanza della richiesta di rimborso delle somme versate per il 2019.
Le parti depositavano documenti e memorie illustrative.
Nel corso dell'udienza pubblica la causa era discussa oralmente e in seguito decisa nei seguenti termini.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è solo in parte fondato ed entro tali limiti va accolto.
In primo luogo deve essere esaminata l'eccezione principale sollevata da parte ricorrente, relativa all'asserita illegittimità del diniego dell'agevolazione invocata, consistente nella determinazione dell'imposta su una base di calcolo ridotta e quindi fortemente agevolata, in conseguenza della ritenuta assenza delle condizioni legittimanti della continuità e della esclusività.
Il ricorrente, che, come si è visto, durante il periodo delle restrizioni alla circolazione conseguenti alla cd. pandemia da "Covid-19" ha usufruito della modalità di svolgimento del lavoro in smart working dall'Italia e che per tale motivo si è visto rifiutare l'applicazione del beneficio, ritiene illegittimo il provvedimento sia a causa del carattere asseritamente necessitato della propria scelta di tornare in Italia e dunque di lavorare in "smart" - dato che diversamente rischiava di essere separato dalla propria famiglia a causa delle restrizioni alla circolazione - sia perché tale momentanea e temporanea sospensione della presenza in Inghilterra, a suo giudizio, avrebbe potuto essere equiparata alla fruizione di un periodo di ferie, che la normativa di agevolazione invocata prevede come un periodo nel quale l'agevolazione spetta a prescindere dall'effettiva presenza all'estero del lavoratore.
Tali tesi argomentative non possono essere condivise.
Quanto al primo aspetto, infatti, deve evidenziarsi che la pur comprensibile scelta di non allontanarsi dalla famiglia in una situazione particolare, sicuramente rilevante qualora fosse in discussione la legittimità di tale scelta nei rapporti con il datore di lavoro, non assume alcun rilievo ai fini dell'applicazione del beneficio fiscale in oggetto, il cui unico presupposto risiede nell'effettivo svolgimento dell'attività retribuita all'estero, dato che solo in tale ipotesi si potrebbe verificare la doppia imposizione. Potendo il ricorrente svolgere l'attività da remoto per via telematica, l'abitazione nel Paese di provenienza del dipendente può sostituire a tutti gli effetti l'originaria sede estera di lavoro, e ciò determina il venir meno uno dei requisiti fissati dall'art. 51 comma 8-bis ossia l'esclusività della prestazione resa all'estero.
In ogni caso, deve escludersi che le restrizioni imposte dai diversi governi alla libertà di circolazione abbia reso impossibile al ricorrente di erogare la propria prestazione in Inghilterra, dato che egli aveva tutto il tempo di farvi ritorno prima dell'operatività delle restrizioni e se non l'ha fatto è stato per effetto di una libera scelta.
Non condivisibile, poi, è la tesi che tale periodo sarebbe paragonabile al periodo di ferie nell'ambito del quale il rapporto di lavoro si considera svolto all'estero anche laddove il lavoratore fosse rientrato in Italia. Invero, tale conservazione del beneficio è connessa alla tutela del diritto al godimento delle ferie e alla sospensione della prestazione lavorativa, che non può subire limitazioni o restrizioni attesa la necessità di garantire la pienezza e libertà di circolazione. Laddove lo smart working, ben lungi dal prevedere una sospensione dell'obbligo di erogare la prestazione lavorativa, determina proprio una modifica delle modalità e del luogo di svolgimento dell'attività lavorativa, per cui, laddove il lavoratore scelga di erogare la propria prestazione in smart, usufruisce non da una sospensione della erogazione della prestazione ma dalla dispensa di uno degli aspetti della subordinazione, l'obbligo di svolgere l'attività lavorativa nella sede aziendale del datore di lavoro e dunque dell'obbligo di risedere all'estero; a ciò consegue che non trova più alcuna giustificazione un regime agevolativo che era strettamente connesso alla necessità di risiedere e di erogare la prestazione all'estero.
Deve invece ritenersi fondato il motivo di ricorso subordinato sollevato da parte ricorrente. La somma di € 515.584,50 quale maggiore IRPEF e relative addizionali versate in relazione all'"Executive bonus" e alle somme percepite sulla base del "Long Term Incentive Plan" in relazione all'attività svolta nel 2019 (per complessivi € 1.107.055,00), è invece riferibile alla prestazione lavorativa svolta dal ricorrente nell'anno 2019, in cui l'attività è stata pacificamente svolta con presenza fisica all'estero e devono, dunque, ritenersi assorbite nella retribuzione convenzionale applicata all' anno di maturazione. Sotto tale aspetto deve prendersi atto della assoluta apoditticità della difesa di parte resistente, che non offre una giustificazione alla esclusione del beneficio.
P.Q.M.
Accoglie parzialmente il ricorso come in parte motiva. Spese compensate.
Roma, 14 ottobre 2024
Elenco Atti Normativi citati
Testo unico del 22/12/1986 n. 917
Testo unico delle imposte sui redditi.
Articolo 23
Applicazione dell'imposta ai non residenti. (NDR: ex art. 20.)
In vigore dal 1 gennaio 2023
Elenco Atti Normativi citati non presenti in banca dati
Testo unico del 22/12/1986 n° 917 - Articolo 51-com8 bis
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