La sentenza n. 120 depositata nel 2025 dalla Corte Costituzionale affronta una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Venezia, sezione lavoro, riguardante l'articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 797 del 1955. La norma in esame disciplina l'assegno per il nucleo familiare (ANF) e la sua applicazione in relazione ai coniugi e alle convivenze di fatto del lavoratore.
Norma contestata e questioni sollevate
L'articolo 2 del d.P.R. n. 797/1955 stabilisce che l'ANF non spetta al coniuge del datore di lavoro, ma non esclude il diritto all'assegno in presenza di una convivenza di fatto tra il lavoratore e il soggetto convivente. La questione di legittimità riguarda la possibile disparità di trattamento tra il coniuge e il convivente di fatto, e se questa differenziazione possa essere in contrasto con gli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 38 (diritto al lavoro e a condizioni eque di lavoro) della Costituzione.
Motivazioni della Corte e interpretazione della norma
La Corte Costituzionale ha chiarito che la ratio dell'articolo 2 del d.P.R. n. 797/1955 risiede nel voler evitare che il beneficio dell'ANF possa essere utilizzato come forma di autofinanziamento da parte di un nucleo familiare composto anche dal datore di lavoro stesso. In altre parole, l'intento è di prevenire situazioni di conflitto di interessi o di autofinanziamento che potrebbero alterare l'obiettivo assistenziale del beneficio.
Inoltre, la Corte ha sottolineato che la disciplina dell'ANF, così come prevista, si limita a riconoscere come nucleo familiare il coniuge e non il convivente di fatto, a meno che quest'ultimo non abbia stipulato un contratto di convivenza formalizzato ai sensi dell'articolo 1, comma 50, della legge n. 76/2016. Questa distinzione deriva dal fatto che l'attuale normativa considera il rapporto di convivenza di fatto solo in presenza di specifici strumenti contrattuali e non come una condizione automatica.
Compatibilità e coerenza con la Costituzione
La Corte ha concluso che la norma non viola gli articoli 3 e 38 della Costituzione. La mancata considerazione del convivente di fatto ai fini della concessione dell'ANF è coerente con la disciplina di legge, che limita il beneficio ai coniugi e a coloro che hanno stipulato un contratto di convivenza formale. La differenziazione viene quindi ritenuta compatibile con il principio di uguaglianza, in quanto la normativa distingue tra diverse condizioni giuridiche e contrattuali, e non crea discriminazioni ingiustificate.
In particolare, la Corte osserva che la disciplina dell'ANF si basa su un'interpretazione storica e normativa che privilegia il nucleo familiare tradizionale e formalizzato, e che questa impostazione è coerente con il quadro normativo e sociale attuale. La mancata estensione del beneficio ai conviventi di fatto senza contratto stipulato rappresenta quindi una scelta legislativa che rispetta i principi costituzionali, considerando anche che la convivenza di fatto è riconosciuta solo in presenza di strumenti contrattuali specifici.
Conclusioni
La sentenza n. 120 del 2025 afferma che la norma che esclude il diritto all'ANF del convivente di fatto non costituisce una discriminazione illegittima, ma riflette un'impostazione normativa coerente con la ratio dell'istituto e con le disposizioni di legge e di legge speciale sulla convivenza. La decisione si inserisce nel solco di un'interpretazione che privilegia la chiarezza normativa e la tutela del principio di uguaglianza, senza violare i principi costituzionali.
In sintesi, la Corte Costituzionale ha confermato la legittimità della disciplina vigente, ritenendo che la distinzione tra coniuge e convivente di fatto ai fini dell'ANF sia compatibile con la Costituzione, considerando il quadro giuridico e sociale vigente e la ratio delle norme applicate.
SENTENZA N. 120
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO;
Giudici: Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797 (Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari), promosso dalla Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e Q. M. Y., titolare della ditta Mercatino Calzature e Borse di Q. M. Y., con ordinanza del 20 settembre 2024, iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 25 giugno 2025 il Giudice relatore Giovanni Pitruzzella;
uditi gli avvocati Samuela Pischedda e Mauro Sferrazza per l’INPS, nonché l’avvocato dello Stato Pietro Garofoli per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 25 giugno 2025.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 20 settembre 2024, la Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797 (Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari), «nella parte in cui non prevede tra le cause ostative al riconoscimento dell’assegno per il nucleo famigliare la situazione di convivenza more uxorio tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato», per violazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione.
L’art. 2, comma 1, del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153, stabilisce che, per i lavoratori dipendenti e gli altri soggetti ivi indicati, gli assegni familiari e gli altri trattamenti di famiglia «cessano di essere corrisposti e sono sostituiti, ove ricorrano le condizioni previste dalle disposizioni del presente articolo, dall’assegno per il nucleo familiare» (ANF). Il successivo comma 3 rinvia poi alle norme contenute nel testo unico sugli assegni familiari, per quanto non previsto dallo stesso art. 2 del d.l. n. 69 del 1988, come convertito.
Il censurato art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955 dispone che «[g]li assegni familiari non spettano: a) al coniuge del datore di lavoro; b) ai parenti ed agli affini non oltre il terzo grado del datore di lavoro che siano con lui conviventi […]».
2.– La vicenda trae origine da un ricorso in opposizione proposto dal titolare di un’impresa individuale contro un avviso di addebito emesso dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) in relazione alla contribuzione dovuta per il periodo aprile 2010-dicembre 2016 ed oggetto di «conguaglio» (ritenuto indebito) con gli assegni per il nucleo familiare. Tali assegni erano stati riconosciuti in relazione alla posizione di una lavoratrice subordinata, sua convivente more uxorio, risultando a carico i figli nati dalla relazione.
Il rimettente riferisce che il giudice di primo grado ha accolto l’opposizione, ritenendo che la convivente more uxorio non potesse essere equiparata al coniuge, in virtù dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, che vieta l’applicazione delle norme eccezionali a casi analoghi. Nell’appello l’INPS prospetta un’interpretazione estensiva dell’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955, in quanto anche in caso di convivenza more uxorio verrebbe meno la «presunzione di bisogno» alla base del diritto. Inoltre, la norma avrebbe «la finalità di impedire che la misura di sostegno in favore del nucleo familiare si traduca in una forma di autofinanziamento per il datore». La norma in questione non avrebbe carattere eccezionale ma sarebbe espressione «di un principio più generale».
Il giudice a quo riferisce anche che vi è stata registrazione all’anagrafe della famiglia, che descrive la convivenza con l’imprenditore sia della lavoratrice sia dei figli della coppia, e che tale situazione di convivenza sussiste dal 2 febbraio 2008.
3.– Il rimettente osserva che l’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955 non consentirebbe un’interpretazione estensiva. Le cause di esclusione degli assegni familiari sarebbero tassative. Mancherebbe «la possibilità di raccordare il testo della disposizione, di contenuto derogatorio, quindi, di portata eccezionale, con la ratio antielusiva della stessa disposizione».
Viene richiamata l’ordinanza del 18 gennaio 2024 della Corte di cassazione, sezioni unite civili, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 230-bis, primo e terzo comma, del codice civile (oggetto della sentenza n. 148 del 2024 di questa Corte), ritenendo non praticabile l’applicazione estensiva di tale disposizione al convivente more uxorio.
Il giudice a quo osserva che la giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza additiva n. 404 del 1988, è intervenuta omologando la posizione del convivente more uxorio a quella del coniuge in relazione alla singola situazione esaminata, «senza postulare alcuna generalizzata estensione dei diritti o degli obblighi del coniuge alla condizione del primo». Viene anche citata la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 5 novembre 2021, n. 32198, che sarebbe «chiarificatrice del prudenziale atteggiamento che il tema dell’omologazione delle due situazioni pone».
4.– La conformità della disciplina legale ai parametri costituzionali andrebbe valutata in relazione alla specifica situazione oggetto di tutela. Il rimettente richiama «l’evoluzione giurisprudenziale tesa a valorizzare la situazione della convivenza di fatto nell’ambito della quale i conviventi sono reciprocamente impegnati nell’adempiere agli obblighi di assistenza» a favore dei figli (è citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione lavoro, 18 giugno 2010, n. 14783). Dunque, la situazione del convivente di fatto col datore di lavoro dovrebbe essere inclusa nel novero delle situazioni ostative alla percezione del beneficio in questione. Altrimenti, «la ratio che sorregge la disciplina ostativa verrebbe vanificata»: essa sarebbe fondata sulla necessità di escludere che il datore di lavoro «si avvantaggi indirettamente della prestazione portando in compensazione l’anticipazione dell’ANF con la contribuzione dovuta». Limitando l’esclusione del beneficio al coniuge, «verrebbe frustrata la ragione fondante il riconoscimento del beneficio, ossia quella di supportare il nucleo familiare rispetto ad uno stato di bisogno, in quanto il ricorso alla provvidenza devierebbe dalla sua naturale funzione per divenire un sistema di esenzione (o parziale esenzione contributiva) in favore del datore di lavoro».
La norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost. per l’«evidente trattamento differenziato che riceverebbero due situazioni aventi per il profilo ora esaminato la medesima esigenza di tutela». Violerebbe, inoltre, l’art. 38 Cost. perché «determinerebbe una deviazione dalla finalità istituzionale propria della prestazione in quanto destinata [a] beneficiare condizioni famigliar[i] nelle quali si deve presumere che non vi sia la condizione di bisogno che giustifica l’erogazione della provvidenza». La mancata estensione del limite ostativo alla convivenza more uxorio con il datore di lavoro implicherebbe «un’indebita esenzione contributiva» dello stesso datore.
Il rimettente chiede a questa Corte di rimediare alla lacuna normativa «mediante la sola soluzione obbligata ossia il vincolante richiamo» all’inclusione del datore di lavoro convivente more uxorio.
La questione sarebbe rilevante in quanto dirimente per l’accoglimento, seppur parziale, o per il rigetto dell’appello. Anche nel caso in cui fosse ritenuta fondata l’eccezione di prescrizione quinquennale, infatti, resterebbe in discussione la debenza della contribuzione per il quinquennio precedente l’atto interruttivo della prescrizione.
5.– Con atto depositato il 5 dicembre 2024, l’INPS si è costituito nel presente giudizio.
La parte condivide le considerazioni del rimettente e rileva che nel nostro ordinamento giuridico si assiste ormai da tempo «ad un progressivo riconoscimento della famiglia di fatto quale soggetto cui attribuire la titolarità di situazioni giuridiche soggettive di rilevante importanza». La posizione del convivente more uxorio sarebbe oramai largamente parificata a quella del coniuge legale (è citata la sentenza n. 213 del 2016 di questa Corte). Importante contributo all’emersione della famiglia di fatto come entità cui riconoscere rilievo nell’ordinamento giuridico sarebbe stato dato anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, con il riconoscimento delle relative posizioni soggettive sotto il profilo risarcitorio e l’affermazione di un principio di responsabilità nelle lesioni arrecate da terzi.
Tale procedimento di assimilazione avrebbe trovato, in gran parte, il compimento nella legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze). Dunque, la famiglia cui occorrerebbe fare riferimento nel caso di specie sarebbe la famiglia intesa come “formazione sociale” ai sensi dell’art. 2 Cost.
La disposizione censurata mirerebbe non tanto ad escludere i soggetti ivi indicati dal beneficio, quanto «ad evitare gli abusi e/o l’inesistenza presunta di uno stato di bisogno in capo al nucleo famigliare, sia pure di fatto, del datore di lavoro», ove il lavoratore o la lavoratrice dipendente conviva con lo stesso.
Secondo la parte, essa potrebbe essere interpretata nel senso di estendere l’esclusione dal beneficio al convivente more uxorio del datore di lavoro. Diversamente opinando, si finirebbe per “favorire” il convivente more uxorio rispetto al coniuge legale: «una sorta di discriminazione “al contrario”».
Dunque, la questione sollevata sarebbe inammissibile in quanto il giudice a quo avrebbe potuto seguire un’interpretazione adeguatrice dell’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955, che intenderebbe comprendere il convivente more uxorio nei casi di esclusione dal beneficio. Trattandosi di una semplice interpretazione estensiva (basata sulla ratio legis) del citato art. 2, che minus dixit quam voluit, e non di un’applicazione analogica, essa dovrebbe ritenersi ammissibile anche in relazione a norme eccezionali.
In subordine, la parte chiede l’accoglimento della questione.
6.– Con atto depositato il 17 dicembre 2024, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel presente giudizio.
La difesa erariale dà atto della rilevanza della questione, «seppur parziale stante la prescrizione come già osservato dal giudice rimettente», ma chiede che sia dichiarata non fondata.
Il convivente more uxorio non potrebbe essere equiparato al coniuge, in assenza di espressa previsione normativa. L’Avvocatura richiama la sentenza n. 148 del 2024 di questa Corte, che confermerebbe la permanente diversità della condizione del coniuge da quella del convivente. Occorrerebbe riservare alla discrezionalità del legislatore l’inclusione o meno della convivenza more uxorio nell’elenco di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955. Anche la giurisprudenza di legittimità escluderebbe che la convivenza possa essere pienamente assimilabile al matrimonio (è citata Cass., n. 32198 del 2021).
L’applicabilità o meno alla convivenza della presunzione legale – prevista dalla norma censurata – di assenza dello stato di bisogno nell’ipotesi di rapporto di coniugio con il datore di lavoro corrisponderebbe ad una scelta del legislatore, «senza in alcun modo comportare una tutela inferiore del convivente». La norma rappresenterebbe un’eccezione rispetto alla regola che vede negli assegni familiari una provvidenza a sostegno del nucleo familiare del lavoratore dipendente.
7.– Il 3 giugno 2025 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria integrativa.
In essa si rileva che, in base alla circolare dell’INPS 5 maggio 2017, n. 84 (Regolamentazioni delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze ai sensi della Legge 20 maggio 2016, n. 76. Effetti su prestazioni a sostegno del reddito erogate dall’INPS. Nucleo di riferimento per unioni civili. Assegno per il nucleo familiare ed Assegni Familiari. Assegno per congedo familiare), per la concessione dell’ANF al nucleo familiare coniugale non sarebbe assimilabile ogni convivenza more uxorio ma solo la situazione dei conviventi che hanno stipulato un contratto di convivenza ai sensi dell’art. 1, comma 50, della legge n. 76 del 2016. La stipula di tale contratto sarebbe necessaria «per far emergere con chiarezza l’entità dell’apporto economico di ciascun genitore alla vita in comune». La convivenza di fatto si distinguerebbe «per la precarietà del suo rapporto (finché rimane unicamente “di fatto”), impedendo quella certezza» di cui necessitano i rapporti previdenziali, «soprattutto quando si tratta del riconoscimento di benefici economici pubblici».
Secondo la difesa erariale, «o non si ha l’equiparazione dei conviventi di fatto per il sorgere del diritto alla percezione dell’assegno per il nucleo familiare o se si intendono equiparare la situazione della convivenza di fatto al coniugio lo si dovrà fare applicando anche le relative norme antielusive come quella contenuta all’art. 2 d.P.R. n. 797 del 1957 [recte, 1955]».
8.– Il 4 giugno 2025 anche l’INPS ha depositato una memoria integrativa. In essa la parte formula considerazioni simili a quelle dell’Avvocatura, appena riportate, chiedendo che questa Corte dichiari la manifesta infondatezza delle questioni.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955, «nella parte in cui non prevede tra le cause ostative al riconoscimento dell’assegno per il nucleo famigliare la situazione di convivenza more uxorio tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato», in aggiunta alla condizione di coniugio.
Tale norma violerebbe: a) l’art. 3 Cost., per l’«evidente trattamento differenziato che riceverebbero due situazioni aventi […] la medesima esigenza di tutela»; b) l’art. 38 Cost. perché «determinerebbe una deviazione dalla finalità istituzionale propria della prestazione in quanto destinata [a] beneficiare condizioni famigliar[i] nelle quali si deve presumere che non vi sia la condizione di bisogno che giustifica l’erogazione della provvidenza».
Il rimettente mira, dunque, a una parificazione “verso il basso”, che produca il risultato di negare l’assegno per il nucleo familiare (d’ora in avanti: ANF) al lavoratore o alla lavoratrice convivente di fatto del datore di lavoro.
2.– In primo luogo, occorre delineare brevemente il quadro normativo nel quale si inserisce la norma censurata.
L’ANF è una prestazione economica introdotta dal d.l. n. 69 del 1988, come convertito, «[p]er i lavoratori dipendenti, i titolari delle pensioni e delle prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro dipendente, i lavoratori assistiti dall’assicurazione contro la tubercolosi, il personale statale in attività di servizio ed in quiescenza, i dipendenti e pensionati degli enti pubblici anche non territoriali», in sostituzione degli assegni familiari e delle “aggiunte di famiglia”, già previsti – rispettivamente – per i dipendenti privati e pubblici (art. 2, comma 1).
L’ANF «compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare» (art. 2, comma 2): la misura della prestazione cresce in corrispondenza alla dimensione del nucleo e diminuisce in relazione al reddito del nucleo stesso. I commi 6, 8 e 9 del medesimo art. 2 regolano la composizione del nucleo e la determinazione del suo reddito (sentenze n. 67 del 2022, n. 516 del 1995 e n. 458 del 1989).
I soggetti protetti, dunque, sono i lavoratori subordinati. La prestazione è erogata dall’INPS direttamente o tramite il datore di lavoro, attraverso il sistema dei “conguagli” con i contributi dovuti dallo stesso datore all’INPS.
Dopo il decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230 (Istituzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1° aprile 2021, n. 46), che ha istituito l’assegno unico e universale per i figli a carico, l’ANF è venuto meno per i nuclei con figli e per quelli orfanili (art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 230 del 2021). La circolare INPS 28 febbraio 2022, n. 34 (Assegno per il nucleo familiare e Assegni familiari. Nuove disposizioni, con decorrenza 1° marzo 2022, derivanti dall’istituzione dell’Assegno unico e universale di cui al decreto legislativo n. 230/2021, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 309 del 30 dicembre 2021), indica i nuclei familiari che possono continuare a beneficiare dell’ANF.
3.– L’art. 2, comma 3, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, rinvia alle norme contenute nel d.P.R. n. 797 del 1955, per quanto non previsto dallo stesso art. 2.
All’ANF risulta dunque applicabile l’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955, in base al quale «[g]li assegni familiari non spettano: a) al coniuge del datore di lavoro; b) ai parenti ed agli affini non oltre il terzo grado del datore di lavoro che siano con lui conviventi […]».
Poiché il rimettente e le parti hanno sostenuto tesi diverse sulla natura e sull’estensione del contenuto precettivo della disposizione, occorre, innanzi tutto, chiarire se essa abbia natura speciale o eccezionale: in quest’ultimo caso, essa non potrebbe essere applicata in via analogica, in virtù dell’art. 14 preleggi (sul punto, ad esempio, sentenze n. 208 del 2024 e n. 231 del 2018; Corte di cassazione, sezione penale feriale, sentenza 4 settembre 2024, n. 33478; seconda sezione, sentenza 29 marzo 2019, n. 13795).
La ratio generale dell’ANF è fornire un sostegno economico ai nuclei familiari bisognosi dei lavoratori subordinati. Quella specifica dell’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955 (che nega l’ANF al lavoratore coniugato con il datore di lavoro) è evitare che il beneficio sia erogato a un nucleo familiare comprendente lo stesso soggetto (il datore di lavoro coniuge del lavoratore richiedente il beneficio) su cui ricade il peso economico della misura: il che si tradurrebbe in un “autofinanziamento” del datore di lavoro. Poiché la norma censurata intende evitare che l’ANF venga corrisposto in un contesto in cui non soddisferebbe l’interesse cui è preordinato, a essa va attribuito carattere speciale e non eccezionale, in quanto rappresenta un adattamento della norma generale al caso specifico, senza porsi in contrasto con la sua ratio.
Ciò appurato, il presupposto interpretativo del rimettente (secondo il quale il divieto di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955 non vale per la situazione di convivenza more uxorio) risulta corretto. Oltre al riferimento testuale al solo «coniuge» (sentenza n. 182 del 2024), occorre rilevare che fra convivente more uxorio e coniuge non sussiste quella somiglianza rilevante che potrebbe giustificare l’applicazione analogica della norma censurata; né, tantomeno, è possibile ritenere che l’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955 minus dixit quam voluit e che, quindi, vada interpretato in senso estensivo, comprendendo anche il convivente more uxorio. Ciò per le ragioni esposte nel punto seguente, dedicato all’esame nel merito della prima questione sollevata.
4.– La questione promossa in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.
Questa Corte ha più volte ribadito la permanente diversità tra il rapporto coniugale e la convivenza di fatto, ritenendo però costituzionalmente illegittima, in casi particolari, la differenziazione tra le due situazioni, alla luce della ratio della norma censurata nella singola ipotesi (sentenze n. 148 del 2024, n. 213 del 2016, n. 140 e n. 86 del 2009, n. 8 del 1996, n. 559 del 1989, n. 404 del 1988; ordinanza n. 7 del 2010).
Come visto, la ratio dell’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955 può essere ravvisata nell’esigenza di non erogare il beneficio a un nucleo familiare comprendente lo stesso datore di lavoro, al fine di evitare una forma di “autofinanziamento”.
Se questa è la funzione della norma censurata, essa non può ritenersi in contrasto con l’art. 3 Cost. per il fatto di non assimilare, ai fini dell’esclusione dall’ANF, il convivente di fatto al coniuge, dal momento che, ai fini della concessione dell’ANF e della sua quantificazione, il nucleo familiare comprende solo il coniuge e non comprende il convivente di fatto.
Infatti, l’art. 2, comma 6, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito (norma non menzionata dal rimettente), stabilisce che «[i]l nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro […]». Dalle circolari dell’INPS 12 gennaio 1990, n. 12, e 11 gennaio 2007, n. 9, e dalla circolare ISTAT n. 81 del 1997 risulta che tale disposizione non è stata intesa in senso estensivo: il convivente, cioè, non è considerato come componente del nucleo familiare.
Dopo la legge n. 76 del 2016, la circolare dell’INPS n. 84 del 2017 ha precisato che, «[a]i fini della misura dell’ANF, per la determinazione del reddito complessivo è assimilabile ai nuclei familiari coniugali la sola situazione dei conviventi di fatto, di cui ai commi 36 e 37 dell’art. 1 della legge n. 76/2016, che abbiano stipulato il contratto di convivenza di cui al citato comma 50 dell’art. 1 della legge n. 76/2016, qualora dal suo contenuto emerga con chiarezza l’entità dell’apporto economico di ciascuno alla vita in comune».
Dunque, nella fase concessoria dell’ANF la convivenza di fatto rileva solo in presenza di un contratto di convivenza: ciò, peraltro, in coerenza con la «scelta fatta dal legislatore del 2016 di rimettere all’autonomia delle parti la disciplina dei rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune, attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18 dicembre 2023, n. 35385). Sulla stessa questione, questa Corte ha rilevato che, al di là delle specifiche norme della legge n. 76 del 2016 sul rapporto di convivenza, «restano affidati alla spontaneità dei comportamenti tutti quegli aspetti che caratterizzano la gestione delle esigenze della coppia, quali coabitazione, collaborazione, contribuzione ai bisogni comuni, assistenza morale e materiale, determinazione dell’indirizzo familiare e fedeltà, durata della relazione» (sentenza n. 148 del 2024; si vedano anche, da ultimo, Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 30 aprile 2025, n. 11337, e sezione prima civile, ordinanza 2 gennaio 2025, n. 28).
La disciplina dell’ANF risulta, pertanto, armonica, vista la coerenza tra la mancata considerazione della convivenza ai fini della concessione dell’assegno e la stessa mancata considerazione ai fini della sua esclusione. La manipolazione dell’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955, richiesta dal giudice a quo, implicherebbe, quindi, un’incongruenza nel sistema (sentenze n. 182 del 2024, n. 8 del 1996 e n. 237 del 1986), perché la convivenza rileverebbe solo ai fini della perdita dell’assegno ma non della sua concessione e quantificazione.
Lo stesso INPS ha modificato la propria posizione nel presente giudizio, chiedendo, nella memoria integrativa, la dichiarazione di manifesta infondatezza delle questioni, proprio alla luce della circolare dell’INPS n. 84 del 2017, sopra citata.
5.– La questione promossa in riferimento all’art. 38 Cost. non è fondata.
Essa, in realtà, ha carattere ancillare rispetto a quella relativa all’art. 3 Cost., appena esaminata: la norma censurata violerebbe l’art. 38 Cost. (peraltro invocato genericamente dal giudice a quo, senza distinzione fra primo e secondo comma) in quanto determinerebbe una deviazione dalla finalità dell’ANF di sostenere i nuclei familiari bisognosi.
Come visto, la mancata esclusione dell’ANF in caso di convivenza di fatto fra lavoratore subordinato e datore di lavoro è, in realtà, giustificata dal fatto che, nella disciplina dell’ANF, il nucleo non include il convivente di fatto del lavoratore, salvo il caso di stipulazione del contratto di convivenza. La norma censurata è, dunque, coerente con la disciplina generale dell’ANF, che a sua volta tiene conto del diverso assetto dei rapporti economici in caso di coniugio e di convivenza.
Per tale ragione, l’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955 non contrasta con la finalità dell’ANF.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797 (Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del d.P.R. n. 797 del 1955, sollevata, in riferimento all’art. 38 Cost., dalla Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Giovanni PITRUZZELLA, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2025
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